1 E’ sotto gli occhi di noi tutti la realtà di un paese che vive una profonda crisi di trasformazione, crisi di transizione da un sistema politico invecchiato e corrotto che richiede correttivi profondi che tuttavia non devono necessariamente, a mio avviso, rendere obsoleta nelle sue parti più vitali, la Costituzione del 1948. Questa reca in sé non soltanto le regole della democrazia riconquistate dopo il fascismo, ma anche un complesso di istituzioni e di valori che sono stati espressi dal patrimonio politico ed ideale della lotta antifascista e della Resistenza tuttora capaci di rappresentare l’ispirazione fondamentale della base di consen- so su cui orientare anche il futuro della nostra società. In questa base di transizione della quale sono noti i momenti che hanno contribuito a mettere a nudo alcuni degli aspetti degenerativi della crisi del sistema democratico e delle sue gravi disfunzioni ma della quale non è ancora dato di vedere con chiarezza uno sbocco riformatore delle istituzioni e l’avvio di nuovi comportamenti politici, assistiamo anche confusi tentativi di dare avvio a una nuova cultura politica. La trasformazione del sistema elettorale, l’unica reale modifica già attuata nel sistema politico, prelude e anticipa in certo senso l’introduzione di un nuovo rapporto tra maggioranza e minoranza, accelerando e forzando la formazione di coalizioni in cui si dovrebbe rispecchiare il bipolarismo del nuovo sistema politico. Ma prima ancora che si precisino gli schieramenti e le culture politiche dell’alternanza, nel processo di cambiamento e di adeguamento delle forze politiche ai nuovi dati del sistema politico, si è fatto grande uso ed abuso del ricorso alla storia per legittimare le posizioni politiche dei nuovi schieramenti in formazione. Questo processo ha investito lo spettro delle posizioni politiche senza distinzione di collocazione, alla destra come alla sinistra degli schieramenti. Gli eventi più rilevanti sono stati certamente, al di là dell’autodissolvimento del PSI, la dissoluzione del partito comunista italiano, travasato nel Partito democratico della sinistra e nel partito di Rifondazione comunista, quello del partito della Democrazia Cristiana, e lo scioglimento del Movimento sociale italiano e il suo travaso in Alleanza nazionale, come componente fondamentale del blocco della destra. L’operazione politica realizzata con lo scioglimento del MSI è stata accompagnata da un processo di revisione culturale il cui carattere non solo eclettico ma soprattutto scopertamente strumentale non può tuttavia farne trascurare l’effetto sostanzial- mente ambiguo e mistificatorio. Ad un ambiguo riconoscimento del valore storico dello antifascismo si è unito il tentativo di depurare il fascismo, senza tuttavia mai sostanzial- mente rinnegarlo, dei suoi tratti più esteriormente e più autenticamente totalitari procedendo ad una sorta di integrazione nel codice culturale di Alleanza Nazionale delle più diverse tendenze della tradizione del pensiero politico italiano, unificate sotto il segno di una cifra nazionale. Gramsci e Pareto, Alfredo Rocco e Gentile, Benedetto Croce, don Sturzo e Ugo Spirito: tutti nello stesso calderone, come se bastasse il richiamo alla comune appartenenza nazionale per obliterare differenze profonde e spesso abissali e per operare con un sincretismo trasformista senza precedenti una superiore sintesi dell’inveramento delle migliori tradizioni espresse dal genio italico. L’operazione culturale di AN rappresenta il tentativo di fondare una piattaforma teorica al di sopra dei partiti e delle parti politiche (nella qual cosa già si nasconde una operazione antidemocratica, nel senso che si nega in partenza un effettivo pluralismo delle posizioni) tendente a forzare l’unanimismo sotto il manto unificante del nazionalismo, come corrispettivo delle tendenze corporative, antiparlamentari e presidenzialiste che persistono sul versante più propriamente politico. lI riconoscimento a parole dell’adesione senza riserve al sistema democratico è controbilanciato nel programma politico dalla forte rivendicazione della propria identità politica e culturale e dalla accentuazione di tratti autoritari e plebiscitari: non potendosi riproporre oggi l’indecente e screditato modello del fascismo storico, si propone un modello aggiornato di stato per così dire liberalfascista, fecondato sostanzialmente dalle sopravvivenza di una cultura fascista.

2 La manifestazione più rilevante del malessere culturale che sta attraversando la nostra società, nel momento della sua crisi di identità politica, è stata rappresentata forse dalla maldestra e sconclusionata discussione sull’8 settembre del 1943, vista non già come crisi della società italiana sotto la sconfitta militare, come sbocco della crisi del regime responsabile dell’entrata in guerra e della sconfitta, ma come crisi etnica degli italiani, risultante dal venir meno del senso della collettività nazionale, appunto, come reato di lesa patria. Una interpretazione quasi inventata dagli storici della destra, in testa Renzo De Felice, lo storico e biografo di Mussolini da poco scomparso, ed Emesto Galli Della Loggia, che lungi dal considerare l’8 settembre per quel che di positivo esso ha prodotto (la nascita della Resistenza come riscatto dalle nefandezze del fascismo), lo hanno interpretato come momento di rottura dell’unità nazionale, estendendo questo attributo alla stessa Resistenza, vista anch’essa come momento di divisione della comunità nazionale e non già come l’occasione per la riappropriazione dell’iniziativa da parte della popolazione, come concreta rivendicazione di autodeterminazione e di scelta del fronte sul quale combattere smentendo le opzioni e le alleanze imposte dal regime fascista. Tutto ciò agli occhi degli storici revisionisti non ha alcun valore: la Resistenza è svalutata come opera di una piccola minoranza di scalmanati, i- dentificati senz’altro e semplicisticamente con i comunisti, identificati a loro volta con gli stalinisti, con il risultato di dare della Resistenza una visione ora estremamente riduttiva ora francamente oltraggiosa, quasi si fosse trattato non della lotta contro la sopraffazione fascista e l’occupazione tedesca ma della spedizione di una infima minoranza di fanatici che non si peritò di far correre alla maggioranza della popolazione, saggiamente incarnata dalla cosiddetta zona grigia, i rischi della repressione tedesca. Un punto di vista che anticipò certe reazioni della stampa della destra al processo Priebke e alla riapertura della discussione sulle Fosse Ardeatine, la cui responsabilità veniva fatta ricadere sull’azione dei partigiani in via Rasella. Per contro, la svalutazione della Resistenza trovava il degno coronamento nella rivalutazione del patriottismo della repubblica di Salò e financo di Va- lerio Borghese e della Decima Mas, ben nota per la sua ferocia antipartigiana. Da queste rapide note dovreb- be risultare chiaro il carattere centrale che la polemica sull’8 settembre ha assunto in una discussione che non è solo storica, ma che ha profondi risvolti di carattere politico e che mira a influire sulla formazione di una nuova cultura politica. L’interpretazione dell’8 settembre avanzata dalla storiografia revisionista mira infatti a dele- gittimare la Resistenza, privandola del carattere di rappresentatività e di consenso per delegittimare alla radice la cosiddetta Prima repubblica, che nella Resistenza trovava la sua immediata base di consenso. Come se fosse possibile liquidare così semplicemente e così rapidamente la problematica della scelta dell’8 settembre, significativamente posta al centro dell’opera di Claudio Pavone sulla Resistenza e sulla “guerra civile”, che non a caso sottolinea proprio nella scelta di resistere e di non andare a casa anche di molti militari dell’esercito regio in disfacimento l’atto di nascita di una identità nuova, la presa di coscienza nel popolo italiano di essere stato espropriato di ogni possibilità di autogovemo e della necessità di riportarsi dalla parte dello schieramento della coalizione antinazista. Bisogna constatare che di fronte all’attacco frontale portato alla Resistenza attraverso la ri- lettura in chiave revisionista dell’8 settembre, una rilettura culminante nel pamphlet defeliciano Rosso e nero, che assume quasi il significato di testamento ideale-politico dello storico scomparso, le reazioni della sinistra culturale sono state relativamente modeste dal punto di vista numerico e moderate nei toni. Significa questo forse che la sinistra in questo tornante decisivo della nostra sto ria non ha più bisogno tra le sue basi di legittimazione degli i- deali della Resistenza? Il processo di revisione in atto anche nella sinistra non autorizza una risposta affermativa categorica a un interrogativo del genere. Ma autorizza di sicuro che si formuli un tale interrogativo, quanto meno per sollecitare un chiarimento intorno ad uno dei punti chiave della nostra cultura politica,che è stato valido per il passato ma che a mio avviso deve continuare ad esserlo anche per il futuro. Sarebbe inconcepibile infatti che per un malinteso spirito di riconciliazione nazionale, in funzione di una cooperazione politica di allargamento del consenso presso l’elettorato moderato, si attenuassero differenze di interpretazioni della nostra storia che non appartengono a dispute storiografiche ma che fanno parte dei connotati di identità politiche e culturali non conciliaboli, perché fanno capo a valori diversi e inconciliabili. Ciò che meraviglia e impressiona in certe prese di posizione a ripetizione cui abbiamo assistito da parte di esponenti dello schieramento della sinistra dall’equivoca rivalutazione di Bottai a quella altrettanto improponibile di Italo Balbo aviatore, come se fosse possibile scindere l’aviatore dallo squadrista non è tanto il fatto in sé, già esso per altro deplorevole, soprattutto quando se ne fanno interpreti personalità ai più alti livelli istituzionali, ma la palese mancanza di consapevolezza delle conseguenze che sono implicite in simili dichiarazioni, in altri termini la leggerezza con la quale vengono pronunciate queste che non sono concessioni solo formali ad un’opinione pubblica animata da spirito nostalgico e dalla volontà di mettere sotto accusa, finalmente, l’antifascismo. Ora, la conseguenza più devastante di queste prese di posizione consiste nel produrre incertezza nei confronti dei valori che vorremmo fossero difesi e trasmessi alle generazioni più giovani. Il non sapere più quale è la parte giusta, il volere non solo riconoscere la buona fede e l’innocenza dell’av- versario di allora ma addirittura ergersi a giudici imparziali, come se in questo modo non delegittimassimo la Resistenza e la memoria della Resistenza; come se al limite il confondere le ragioni individuali e le ragioni della Rsistenza operare le giuste e opportune distinzioni non significasse, ben al di là di cercare di capire le ragioni dell’avversario, il rischio di identificarsi con esse e con esso. Ciò vale per il riconoscimento delle ragioni dei giova- ni che optarono per Salò come per la riesumazione a freddo degli orrori delle foibe, delle quali fra l’altro a torto si è parlato di una pagina di storia dimenticata, laddove esiste ormai una abbondante documentazione che sta a dimostrare come proprio settori importanti della cultura della sinistra abbiano cercato di fare luce su questioni così scottanti della nostra storia, sottraendole in tal modo alle strumentalizzazioni della destra. Ma nell’ uno come nell ‘altro caso l’appello indifferenziato alla comprensione delle ragioni dell’altra parte o l’adesione ad atteggiamenti mentali che sono stati tipici di un’opinione pubblica fortemente segnata da retaggi nazionalisti tradiscono ammiccamenti alla destra, il cui carattere strumentale appare anche troppo evidente pur sotto il pretesto di volere in tal modo rompere tabù, che peraltro non esistono. Svellere ad esempio la tragedia delle foibe dal contesto sto- rico delle responsabilità del fascismo per l’oppressione delle popolazioni slave entro i confini italiani prima e del- l’aggressione contro la Jugoslavia dopo, ha significato puntare ancora una volta sull’emotività prodotta da fatti atroci nei confronti dei quali non possiamo usare alcuna indulgenza, perché essi, privati del loro contesto perdono ogni relazione di tempo e di spazio e ogni nesso causale con gli eventi precedenti, diventano cioè fatti meramente irrazionali e immotivati, pertanto incomprensibili al di fuori della cifra della pura barbarie. Si opera così una vera e propria destrutturazione della storia, non è più neppure revisionismo strisciante ma è revisione in atto di giudizi e di comportamenti. In entrambi i casi, ciò che salta immediatamente agli occhi è l’omologazione dei punti di vista, la rinuncia a una posizione chiara, un falso senso di equidistanza tra posizioni che non possono essere messe sul- lo stesso piano, a meno di non volere annullare il significato delle proprie posizioni e di accettare una sospensione di giudizio, quasi il rifiuto di prendere posizione.