L’ordine del terrore” di Wolfgang Sofsky
Il potere assoluto alle estreme conseguenze

E’ un testo che desta ammirazione per il rigore scientifico della documentazione e che stronca sul nascere qualsiasi tentativo di negare la realtà del mondo concentrazionario nazista.Il filo conduttore è l’analisi sociologica dell’universo concentrazionario, è il concetto del potere assoluto, il quale definisce zone sociali, distribuisce spazi e dirige movimenti entro limiti invalicabili, distribuisce la giornata secondo fasi temporali, modificabili, però, in modo arbitrario e quindi imprevedibile. Improntando di terrore ogni attività lavorativa, facendone strumento di tortura. Esasperando la violenza fino al limite della crudeltà gratuita. Potenziando la sua forza con impianti di sterminio. Tutto rigorosamente documentato che consente di comprendere l’inconcepibile crudeltà, senza lasciare spazio ad alcuna giustificazione o dubbio. Ritengo questo testo utilizzabile didatticamente sia da docenti che da discenti di ogni ordine e grado, con possibilità di riflessioni di ordine storico e morale, perla costruzione di una società improntata alla pace ed alla fratellanza universale.
“L’ordine del terrore”
di Wolfgang Sofsky – Ed. Laterza – Bari, pp. 512

Angelo Travaglia 

 
Gli anni rubati” di Settimia Spizzichino
Quei barlumi di umanità in mezzo all’inferno
Il nostro annuale pellegrinaggio al Portico di Ottavia lo abbiamo compiuto virtualmente due volte in compagnia di Settimia Spizzichino. La prima volta in occasione del Convegno internazionale di Torino 20-21 ottobre ’94 – La Deportazione femminile nei Lager nazisti – al quale Settimia ha partecipato e in chiusura ha fatto la seguente dichiarazione: «Dico solamente questo, che sono partita con sei persone della mia famiglia e sono tornata sola: tutto il resto l’avete sentito dalle mie compagne che hanno sofferto quello che ho sofferto io, perché era uguale per tutte, ebree e politiche».

Il secondo pellegrinaggio è consistito nella lettura del libro di Settimia Gli anni rubati pubblicato dal Comune di Cava de’ Tirreni, presentato a Roma sabato 19 ottobre.

Apprendiamo che dei 1022 ebrei «razziati» nel ghetto di Roma solo 17 sono ritornati e unica donna Settimia. Il libro è un bel documento piano ricco di notizie – che forse già sappiamo ma che è sempre opportuno ripetere – anche per le diverse sfumature dovute ai caratteri, alla cultura dei protagonisti. Il carattere di Settimia si rivela splendido: lei registra in mezzo all’orrore i barlumi di umanità quando ci sono. Lei crede nella vita. Non possiamo dirlo con sicurezza, ma è probabile che questo sia stato un importante fattore di sopravvivenza. Bella, non sembri una contraddizione, bella letterariamente la triste storia della sorella Giuditta che caricherà di rimpianti Settimia assieme agli altri congiunti perduti. Di Giuditta vediamo una foto nello splendore della giovinezza.

Il libro di Settimia è una lettura che ci coinvolge profondamente e non ho vergogna a dirlo, fino alle lacrime. Siamo anche noi portati a sentire e a non sentire, divenuto abituale l’odore del crematorio. Il libro di Settimia è un documento ben costrutto, utile per far conoscere quello che è stato «il più grande crimine della storia». Grazie Settimia.

B.V.
 

I licei Berchet e Carducci durante il fascismo e la Resistenza
L’ “arianizzazione” della scuola vista da vicino 
Il libro documenta il contenuto dei tre incontri avvenuti nel 50° della Liberazione presso il Liceo Carducci, dedicati in particolare a: “Fascistizzazione e controllo della scuola”, “Arianizzazione della scuola” e “La scuola milanese e la Resistenza”.

Già nel 1994 era stato organizzato presso il Liceo Carducci un convengo dedicato a Mario Segre, insigne epigrafista, docente al liceo stesso e assassinato ad Auschwitz nel maggio ’44 (il ricordo resta nel libro D. Bonetti – R. Bottoni, Ricordo di Mario Segre epigrafista ed insegnante. Atti della giornata in memoria di Mario Segre e della sua famiglia, Milano, Liceo-ginnasio “G. Carducci”, 23 maggio 1994, Milano 1995).

Ora il nuovo volume viene a dimostrare come nella scuola, per iniziativa di insegnanti e presidi generosi, possano nascere frutti buoni, sia da un punto di vista dell’etica civile che della dignità culturale: il lettore trova infatti i risultati della ricerca nata dall’appassionata collaborazione di studenti e maestri e tesa a ricostruire il clima opprimente della fascistizzazione della scuola, che ebbe come concreta conseguenza l’applicazione delle leggi razziali, con la persecuzione e l’espulsione di docenti e allievi nei due Licei milanesi considerati.

Nell’ultimo incontro il discorso ha toccato invece la capacità della scuola milanese di resistere, anche attraverso il martirio, come fu nel caso del prof. Quintino di Vona, umanista e resistente e del quale ha parlato il prof. Vincenzo Viola.

La formula degli incontri, rispecchiata del resto dal libro, è originale perché ha riunito le voci di relatori di professione storici e ricercatori a quella dei docenti che unitamente ai loro studenti si sono sobbarcati il lavoro di scavo negli archivi e nei protocolli, anche quelli ‘riservati’, dei rispettivi Licei. Riferisce il prof. Bottoni, animatore sin dal ’93 della ricerca, che il materiale ‘spogliato’ è stato estremamente eterogeneo: circolari, disposizioni inviate dal Provveditore ai presidi e le relative risposte, note informative sugli insegnanti, verbali dei collegi dei docenti dai quali traspare – fortunatamente – ‘un atteggiamento di diffidente distanza da talune più rozze richieste delle autorità superiori o quanto meno un rifiuto d’adesione solitamente motivato con improrogabili impegni di carattere educativo e culturale’. Insomma la strada tracciata dagli interventi del ministero dell’Educazione Nazionale con Cesare Maria De Vecchi prima e poi con Giuseppe Bottai, impegnato nella politica di affermazione della purezza della razza nella scuola italiana, non trovò tutti consenzienti nei due licei, anche se il contributo di D. Bonetti e M. G. Zanaboni (Fascistizzazione e controllo della scuola in due licei milanesi: il “Berchet” e il “Carducci”), ci conduce lungo le tappe dell’adesione sempre piu stretta di insegnanti, programmi e libri di testo all’ideologia del regime. Specchio della cultura dominante è anche la composizione della biblioteca scolastica di quegli anni, come ci dice il saggio, dovuto proprio a un gruppo di studenti (La biblioteca del liceo “Carducci ” negli anni 1933-36), che ricostruisce le scelte dell’epoca, mirate ad escludere la contemporaneità, fatta eccezione per gli scritti politici fascisti.

Lunghe liste di nomi accompagnano il contributo di Michele Sarfatti (La scuola, gli ebrei e l’arianizzazione attuata da Giuseppe Bottai) e concernono le esclusioni previste dai vari Regi Decreti Legge del ’38 di studenti, insegnanti ebrei, impiegati e … libri scritti da autori ebrei dalla vita culturale attiva del paese. Conclude Sarfatti: “E tra l’autunno 1943 e la primavera 1945 non pochi giovani ariani educati in questa scuola arrestarono i loro non-compagni-di classe ebrei e i loro non-professori o non-autori-di libri-di testo ebrei, per consegnarli a killers specializzati stranieri”. Gli studenti del Carducci hanno contestualizzato anche questo doloroso capitolo con l’intervento L’espulsione degli studenti ebrei dal Liceo “Carducci”: dai registri d’archivio alla voce dei sopravvissuti. Si tratta della commovente registrazione di una serie di interviste agli antichi studenti (quelli rimasti, quelli rintracciabili) colpiti dalle leggi razziali.

A concreta testimonianza della possibilità, sia pure eroica, sia pure a costo della propria vita di lottare per la libertà, il prof. Viola traccia il già citato profilo del prof. Quintino di Vona, ucciso a Inzago il 7 settembre 1944, a conclusione di una lunga vicenda di indipendenza morale che non lo vide mai iscritto al PNF (avvalendosi anche della condizione di Grande Invalido della 1 guerra mondiale), da sempre antifascista dichiarato e investito di alte responsabilità nella lotta clandestina, capace di azioni coraggiosissime in difesa di compagni arrestati e delle loro famiglie. Altri contributi rendono bella e appassionante la lettura di questo libro che ci conduce sino al momento dell’epurazione, con le pagine scritte daUmberto Diotti, l’instancabile preside del Liceo Carducci, un liceo senza particolari marche di nobiltà, ma che oggi può scrivere con orgoglio il contributo dei suoi insegnanti e dei suoi studenti alla lotta per la libertà. E lì ha studiato anche il nostro presidente Maris: sarà un caso?

Giovanna Massariello Merzagora

D. Bonetti, R. Bottoni, G. Giargia De Maio, M. G. Zanaboni (a cura di),

I licei G. Berchet e G. Carducci durante il fascismo e la Resistenza – Atti di tre pomeriggi di studio

Milano, Liceo “G. Carducci” 20febbraio, 9 marzo, 20 aprile 1995. Milano, 1996. pp. 186

 
Il ritorno dai Lager“, a cura di Pietro Vaenti
Difficile convincerla che papà non era soltanto una fotografia
Uno dei saggi contenuto nel libro Il ritorno dai Lager a cura di Pietro Vaenti è mio. Avrei quindi potuto declinare l’invito a recensirlo, ma non l’ho fatto per rimanere accanto a V. E. Giuntella autore di un suo saggio, mancato in questi giorni, desideroso di manifestargli tutta la mia ammirazione, tutto il mio affetto.

Giuntella ha fatto moltissimo per la deportazione militare – è stato un IMI – e per quella politica, prodigando la sua testimonianza instancabilmente, generosamente e, aggiungo, sapientemente date le sue rare qualità di studioso e di intellettuale. Abbiamo perso una forza straordinaria. Per me, sebbene fosse di qualche anno più giovane, era un fratello maggiore nonostante la deferenza che giustamente gli prodigavo. Ecco la sua sintetica biografia in appendice a Il ritorno dai Lager: Tenente degli Alpini, fu deportato dai nazisti, all’indomani dell’8 settembre, in lager polacchi e tedeschi. Fu liberato dagli inglesi il 22 aprile 1945. Al ritorno in patria, si è interessato agli intemati (militari e resistenti) e si è occupato di storia del nazismo e dei lager. In tali ambiti, ha pubblicato il volume Il nazismo e i Lager. Professore di storia dell’età dell’Illuminismo, ha pubblicato il volume La città dell’Illuminismo.

E veniamo al Saggio di V. E. Giuntella che inizia con le citazioni dei ritorni classici, l’Odissea di Omero, l’Anabasi di Serrofonte per poi venire ai nostri giorni con la Tregua di Primo Levi. Via via incontriamo tanti compagni e amici e amiche tra le quali Elena Recanati sempre viva nel nostro ricordo e tanti casi esemplari vagliati con impegno e con amore. C’è anche il ritorno suo di Giuntella da Wietzendorf che qui riporto pensando a quella bambina non più bambina con la quale ho parlato recentemente: Mia madre fu avvertita del mio arrivo a Roma da una zia. Mi corse incontro con Maria Cristina, che era nata durante la mia prigionia. Prima di Lei, la madre di un mio compagno mi abbracciò e disse: « Tutti ritornano, mio figlio non torna più». Tentai di baciare mia figlia, ma sbottò in un pianto dirotto. Anche per lei la mia fotografia era il «papà» al quale ogni sera mandava un bacio e durò a lungo, fino a quando avvertì che potevo essere utile a portarle l’acqua da bere, o il biberon del latte, specie durante la notte. Chiude ricordando e citando lo storico francese Michelet che era stato a Dachau: “L’ esperienza che abbiamo vissuto è indelebile. Ci ha segnati per il resto dei nostri giorni. Ne abbiamo ancora le cicatrici, non tutte visibili [ … I . Abbiamo sondato abissi, in noi e negli altri».

E ora parliamo di Vaenti, l’eroe di queste giornate. A Vaenti, alla sua tenacia, al suo impegno si devono i due significativi convegni di Cesena, quello del 1987 sulla resistenza degli italiani all’estero e quello del 1995 denominato Il ritorno dai Lager, ma di più ampio contenuto perché riguarda anche il ritorno dei partigiani che hanno combattuto all’estero. Vaenti inizialmente solo ha convinto tutti ed è riuscito nel suo intento con un grande sforzo di volontà e con mirabile tenacia. I convegni hanno illustrato aspetti della Resistenza che altrimenti, sarebbero rimasti in ombra. E questo il suo grande contributo alla memoria. In un suo saggio racconta il ritorno dall’Albania, liberata il 29 novembre ’44, dove aveva combattuto come partigiano dal momento in cui l’esercito italiano si era sfasciato l’8 settembre ’43. Anch’egli racconta la sua odissea pervasa di accenti morali e conclude riportando una preghiera di Teresio Olivelli, testimonianza della sua fede.

Per quanto riguarda gli altri saggi rinvio alla lettura di questo prezioso libro. Di quello di Anna Maria Bruzzone e del mio, di una consonanza non concertata, si rileva che più che ex deportati i deportati rimangono tali come ebbe a dire lo storico francese Michelet citato da Giuntella. Da Giuntella ho preso una frase che ho posto in epigrafe del mio saggio «Dalla memoria del Lager nasce un impegno nel presente» desiderando così dimostrare a Giuntella la mia grande considerazione. Pregevoli gli altri saggi di illustri amici e di persone competenti e sono Alberto Cavaglion, Massimo Coltrinari, Giorgio Vaccarino, Massimo Sani, Antonio Giuseppe Dore, Simonetta Giacobbe – incontro carico di simpatia – Alberto Berti e un’appendice di Romano Pieri sul tema del ritorno.

Ho partecipato arricchendo il mio patrimonio di memorie ad entrambi i convegni, ma non, per motivi di salute, alla presentazione degli atti del secondo. Ho Cesena nel cuore con la sua splendida biblioteca.

Grazie Vaenti.
B.V.
 

Notte e nebbia – Racconto di Gusen” di Lodovico Barbiano di Belgiojoso
Poesia e realismo su quando “eravamo magazzini di dolore” 
Il nostro compagno e amico Lodo – Lodovico Barbiano di Belgiojoso – ha sentito «il dovere di testimoniare» con un prezioso piccolo libro di 120 pagine: Notte e Nebbia – Racconto di Gusen, Ugo Guanda editore, che si aggiunge all’ampia memorialistica sulla deportazione politica italiana.

Dopo un breve accenno alla cospirazione antifascista e all’arresto, le tappe della sua Odissea nella quale ci riconosciamo con diverse approssimazioni: San Vittore, Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen I la più lunga e crudele, Gunskirchen breve e conclusiva, ma non meno drammatica. Infine il rientro a Gusen dopo la liberazione e il rimpatrio. La rettitudine e la coerenza di Lodo nel rifiuto, a Gusen, di un posto migliore che avrebbe però comportato la sorveglianza dei compagni.

La narrazione delle vicende della prigionia non è soltanto cronistica, ma anche ricca di osservazioni molto profonde in una prosa poetica, intrisa di sapienza, che non è possibile riassumere e si possono trascrivere solo molto parzialmente. «Il campo era solo sofferenza. La sofferenza riempiva ogni spazio, come qualcosa di solido. La si coglieva nel fruscio lento di chi si muoveva trascinandosi, la si riconosceva nella voce e nei gesti, si trasmetteva agli oggetti, ai luoghi, al paesaggio». «Eravamo magazzini di dolo re che, concentrato entro i limiti del campo, si opponeva allo spazio infinito che si allargava al di là del muro. Una immensa concentrazione di sofferenza e, fuori, un mondo illimitato».

Queste le persone rinchiuse, questo l’ambiente in cui avvengono episodi di efferata crudeltà, dove la morte è la regola e la sopravvivenza l’eccezione. Belgiojoso in vari modi tenta di spiegare la sua salvezza, già nella profezia di Don Liggeri: «Si vede che non avevi bisogno di fuggire», a proposito del tentativo non riuscito di fuga a Fossoli. «Avevo scoperto in me, quasi fosse un patrimonio sepolto, un bagaglio segreto, la semplice essenziale arte di sopravvivere: un codice elementare, che imponeva di tesaurizzare tutto, di mettere tutto a frutto». «Disperatamente per tutto il tempo della prigionia, ho costretto me stesso a un gioco: conquistare la mia libertà anche in questa condizione servile. Tale sforzo, tale esercizio direi, mi ha sempre aiutato; e se penso alle ragioni della mia salvezza, attribuisco un’importanza cruciale alla caparbia volontà di affrontare le condizioni imposte come una formidabile sfida: “Mi volete fare questo?” mi dicevo, mi dicevo: “Benissimo! Ma io vi disprezzo, dentro di me vi disprezzo “». «… l’unica possibilità di salvezza era nella fantasia più sfrenata, nel gioco eccitato dell’immaginazione. Ero nudo a cavallo, con una spada in mano, come una statua equestre e comandavo: “Avanti, Avanti” a quegli esseri ripugnanti ridotti allo stato di vermi». Allude Belgiojoso alla descrizione che precede di un gruppo di prigionieri usciti bagnati dalla doccia all’aperto nel freddo invernale, stretti l’uno all’altro senza quasi confini: un’umana gelatina. «I prigionieri anziani raccontavano che una volta era ancora peggio perché c’era sempre qualche morto accoltellato. Per sopravvivere non bisognava avere né odi né rancori, non bisognava essere né creditori né debitori».

In un altro episodio – la cucitura di un bottone mancante – contribuisce alla dignità del prigioniero ed è quindi fattore di sopravvivenza. Difficile una sintesi dei motivi di sopravvivenza, sui quali gli ex deportati si interrogano, e così psicologi e saggisti, non dimenticando la preponderanza del caso,”la fortuna” e la morte sempre incombente.

La narrazione ha anche altri oggetti: episodi di inenarrabile crudeltà, episodi di altruismo, legami di amicizia e di solidarietà, casi di capi dotati di un minirno di comprensione.

Una irrealizzabile fantasia di Lodo: delimitare uno spazio tutto per sé chiuso da quattro mura che lo isoli dagli sconci rumori e dai mefitici odori del block.

Nei Lager ci sono anche dei momenti liberi in cui è possibile posare uno sguardo su «la calma degli Dei» (ricordo Magini, che poi accompagnò assieme a Maris Belgiojoso in Italia, recitare Valery a Gunskirchen)(pag.87).

Lo stravolgimento della condizione umana emerge con pietosa, amara, evidenza nel canto della prostituta:

… je n’aime personne, je hais tout le monde.

Ici tout m’étonne:

c’est l’ennemi qui m’embrasse,

c’est l’ami qui m’angoisse, les copains qui meurent defaim… (1).

Il canto strappa a Belgiojoso questo disperato commento: «La fame, ormai, non era più fame, il sonno non era più sonno, il gelo non era più gelo, l’arsura non era più arsura, i1 dolore non era più dolore. Nemmeno la morte era più morte». In conclusione, quella di Belgiojoso è una narrazione tanto realistica quanto poetica di un autore che già si era misurato valorosamente con la poesia: Come niente fosse, Edizioni del Leone. Disegni carichi di verità e di spontaneità accompagnano con eleganza e proprietà lo scritto.

 

(1) Amo nessuno

odio tutti

qui tutto è stravolto

il nemico mi abbraccia

l’amico mi angoscia

i compagni muoiono di fame

B.V.
 

La mia ombra a Dachau” antologia di poesie concentrazionarie
Cantarono la vita e la morte ognuno nella sua lingua
La versione originale di questa raccolta antologica, in lingua tedesca, uscita alcuni anni fa in Germania, ha costituito il risultato di anni di ricerca e di raccolta degli scritti di 42 autori di diverse nazionalità (di ogni parte dell’Europa sotto occupazione nazista), perciò di differenti lingue e culture.

I motivi che hanno ispirato il lavoro della giornalista e ricercatrice Dorothea Heiser sono mirabilmente analizzati e illustrati nel proemio dell’opera originale, che costituisce anche l’introduzione della versione italiana, redatta dal prof. Walter Jens, una delle figure di spicco del giornalismo storico culturale.

Leggendo quella introduzione scopriremo che l’ispirazione che ha sollecitato e quasi imposto la realizzazione dell’opera ha tratto origine da una poesia, l’unica da lui scritta, di un giovane deportato istriano a Dachau, Nevio Vitelli, deceduto nel 1948 in seguito alle malattie contratte nel Lager nazista. Il titolo “La mia ombra a Dachau” e il testo della poesia, impressi sull’immaginetta fotografica di Nevio Vitelli, hanno significato per Mirco Giuseppe Camia quanto di più poeticamente tragico potesse essere tratto dall’esperienza detentiva di un ragazzo di 16 anni: una elegia alla volontà di vita ma conscia dell’ineluttabilità della morte, densa di tutto l’amore sacrale che può nutrire “il ragazzaccio” verso la propria genitrice, con la quale vuole – “insanguinato e sporco” – instaurare un dialogo dall’aldilà di un filo spinato, “un colloquio”…

Nel 1985, in occasione del 40° della Liberazione, Mirco Giuseppe Camia presentò “La mia ombra a Dachau” ad un gruppo di intellettuali tedeschi assieme ad altre poesie di diversi autori, anche italiani, quali Giovanni Melodia e Franco Varini, con la proposta di editare in forma bilingue tali opere, vale a dire con a fronte la lingua parlata nel Paese di uscita del volume. Dorothea Heiser raccolse l’idea e con un faticoso lavoro di ricerche, di ricostruzioni storiche, di raccolta di testimonianze, ha costruito un documento di alto ed intrinseco valore umano oltreché storico, un’opera letteraria singolare, densa di esplicazioni di una cultura inimmaginabile: “La letteratura concentrazionaria”. Oltre alle 79 poesie, nelle versioni tradotte, fanno parte integrante dell’opera le biografie degli autori, saggi e cenni storici, interviste, disamine sulle origini e sulla vita del primo grande Lager nazista di esperimentazione e sterminio; tutto curato da Dorothea Heiser. La traduzione, tratta dalla versione francese, è stata curata da Mirco Giuseppe Camia. L’edizione tedesca della Pfeiffer viene venduta ai visitatori nel Museo del Lager.

Abbiamo tratto questa nostra presentazione da un colloquio con Mirco Giuseppe Camia, il giorno prima del suo ricovero in ospedale. Purtroppo la malattia che da tempo lo affliggeva ha avuto ragione della sua resistenza. Camia è morto a gennaio, senza vedere il libro al quale con tanta passione aveva lavorato.

Giandomenico Panizza

“La mia ombra a Dachau – Antologia di poesie concentrazionarie”. Il libro uscirà a metà aprile, nella versione in lingua italiana realizzata dal Gruppo Ugo Mursia Editore di Milano