Leopoli / Si è riaperto un capitolo oscuro di storia ignorata

La autorità sovietiche, rilanciando notizie che avevano già diffuso un paio d’anni fa, hanno annunciato di avere scoperto a Leopoli, in Ucraina occidentale, alcune fosse comuni in cui giacerebbero i resti di duemila militari italiani (compresi generali, colonnelli e ufficiali inferiori) trucidati dai nazisti nel ’43. Il ministero della Difesa ha subito replicato smentendo: non gli risulta – ha dichiarato – che, in quei luoghi e a quella data, siano avvenuti massacri di tale entità. E allora arrivano le domande: chi sono quelle povere vittime? Sono davvero soldati? Quando sono stati veramente uccisi? E da chi?
La scoperta delle tragiche fosse – dice la Tass – è avvenuta grazie alle ricerche di un gruppo di studenti che a Leopoli si occupano di storia della seconda guerra mondiale; il loro capo, Vladimir Demchak, ha riferito anche che “sono già stati identificati i nomi di oltre cinquanta ufficiali trucidati” e che ci sono anche i testimoni di quell’eccidio. Il pittore Semyon Gruzberg ricorda di aver visto i nazisti “scortare la colonna di italiani in uniforme grigioverde” e la signora Yulia Moska-Bukovskaya, 60 anni, precisa anche la data della strage affermando che, all inizio del settembre ’43, vide gli italiani sterminati a gruppi nella foresta di Lisentisky, vicino a Leopoli: “Furono colpiti a morte in una cava di sabbia. I corpi vennero poi bruciati e sepolti nella terra, sopra i tedeschi vi piantarono gli alberi per nascondere le tracce del loro delitto”.
Quale fu la posizione ufficiale assunta dal nostro governo dinanzi a queste notizie e alla sempre più pressante evidenza dei fatti?
“In un primo tempo le notizie provenienti dall’Urss parlavano del luglio-agosto 1943 ed è per questo motivo che dicemmo che non risultava nulla. L’unica ipotesi plausibile sul massacro è che sia avvenuto dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nei confronti dei contingenti italiani abbandonati a sé stessi in varie nazioni europee e deportati dai nazisti. Dopo l’8 settembre del ’43 all’archivio storico del ministero della Difesa non fu più possibile raccogliere dati ufficiali sulle truppe italiane all’estero. I tedeschi fecero perdere ogni traccia”. Il ministro della Difesa Spadolini spiega in questo modo la sua reazione alle notizie dell’agenzia sovietica Tass”.
La sua prima reazione ufficiale alle critiche che gli sono piovute da più parti giunse con queste parole il 5 febbraio.
“Voglio ricordare – aggiunse poi, in un secondo momento, Spadolini – che il ministero della Difesa ha emesso un solo comunicato ufficiale: in esso si ricorda che, proprio a proposito della vicenda di Leopoli, ordinai nell’85 una approfondita indagine e che questa si arenò per la mancata collaborazione delle autorità sovietiche. Ora il clima è cambiato, ho fiducia in Gorbaciov, sono sicuro che l’Urss ci darà una mano e proprio per questo stiamo trattando attraverso l’ambasciata italiana a Mosca”.
Gorbaciov potrebbe dare infatti una mano alle ricerche consentendo l’accesso alla zona degli storici italiani, Leopoli, che allora era in terra di Polonia, oggi si chiama Lvov, cittadina di circa 600 mila abitanti nella repubblica sovietica dell’Ucraina. Ma l’aiuto dovrebbe fermarsi qui. I sovietici infatti non furono testimoni della tragedia.
Ma al di là dell’aiuto che potrà venire dall’Unione Sovietica è comunque importante la volontà del Governo italiano di andare a fondo della questione. Unico atto concreto in questo senso è stato fino ad ora, la formazione di una commissione d’ inchiesta al cui interno figurano militari e storici, fra questi ultimi vi sono Lucio Ceva e Romain Rainero. Non mancano i memorialisti in grado di contribuire con le loro esperienze dirette sul fronte russo (Nuto Revelli, Giulio Bedeschi e Mario Rigoni Stern) e non manca, c’è da sperarlo, la voglia di giungere finalmente a delle conclusioni definitive intorno all’inquietante mistero che sembra avvolgere questo sanguinoso capitolo della storia del nostro corpo di spedizione in Russia, all’ indomani dell’8 settembre.
Una storia dimenticata troppo in fretta
Non sembra, comunque, che una volta istituita la commissione, questa basti da sola a dirimere o placare le polemiche che nascono soprattutto da dubbi e sospetti.
Polemico col ministero della Difesa è Arrigo Boldrini, presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi). Boldrini afferma che nella zona di Leopoli nel settembre del 1943 c’erano contingenti italiani: i reparti operativi dell’Armir erano stati ritirati in primavera ma era rimasta ancora tutta la componente logistica dell’armata.
Interpellato quando il “caso Leopoli” era in prima pagina, durante una conferenza stampa indetta dal Pci sui problemi delle forze armate, il presidente dell’Aripi ricordò che più volte il Partito comunista negli anni passati ha rivolto al governo interrogazioni sulla vicenda, ma queste sono rimaste senza alcuna risposta.
Boldrini aggiunse che i reparti italiani che si trovavano nella zona di Leopoli nel settembre del ’43 costituivano il “Comando retrovie dell’Est” (forse da qui il nome “Retrovo”) diretto da un comandante di divisione il cui nome, anche al di fuori delle documentazioni ufficiali, è facilmente individuabile in quanto scritto sui tesserini di tutti gli ufficiali.
Alle autorità militari italiane muove un’aperta critica anche il responsabile della sezione romana dell’Associazione dei deportati nei campi di sterminio nazisti. Andrea Gaggero: “Jacek Wilczur mi raccontò dello scarso interesse delle autorità italiane per la documentazione da lui raccolta sulla tragedia degli italiani di Leopoli” ha affermato Gaggero.
Fra le polemiche e i lavori della Commissione ministeriale, il flusso di testimonianze di quelli che c’erano, che ricordano, continuano ancora oggi a confluire ininterrotte verso le redazioni dei quotidiani Italiani.
Tra queste riportiamo quella di Claudio Sommaruga che racconta: il 15 settembre del 1943 in concomitanza coi colloqui Mussolini-Hitler i tedeschi invitarono gli italiani ad arruolarsi in reparti speciali delle Ss, col solo giuramento di fedeltà al Führer, secondo la prassi in uso all’inizio dell’ internamento dell’esercito italiano. La fucilazione era riservata agli ufficiali e ai soldati colpevoli di resistenza armata, cessione di armi ai partigiani e connivenza con loro. Queste norme furono applicate a Cefalonia, nei Balcani, in Grecia; non si sarebbero dovute applicare a Leopoli, dove non c’era resistenza armata. Ma i tedeschi si preoccuparono di condurre le operazioni di sterminio nel modo meno palese possibile, senza lasciare tracce, superstiti, testimoni. E così anche il massacro di Leopoli si inquadra in quelli successivi di Treblinka e di Chelm, che venne chiamata “la padella degli italiani”. La gente deve sapere tutte queste cose, non per riaprire ferite, ma per la verità storica, e perché il sacrificio oscuro di tante vittime del nazismo non sia stato vano. Dimenticarli, sarebbe come ucciderli una seconda volta”.
Tutti sapevano nessuno ha parlato
Altro problema, che la commissione d’indagine ha il compito di risolvere: come mai, del massacro di Leopoli, non c’è nessuna traccia neanche negli archivi della Croce rossa? Fra i documenti della Croce Rossa di Ginevra, tuttavia, figura un rapporto che fornisce alcune interessanti precisazioni sugli internati militari.
In tale rapporto – presentato alla diciassettesima conferenza internazionale dell’organizzazione umanitaria svoltasi a Stoccolma nell’agosto del 1948 -, si afferma che i militari e i civili italiani internati nei campi tedeschi in seguito all’armistizio erano 550 mila. Ma, a Ginevra, quella lista non venne mai comunicata. Perché? Perché Berlino negava agli internati lo statuto dei prigionieri di guerra. Berlino voleva trattare il problema solo con il governo della Repubblica di Salò, escludendo quindi ogni autorità internazionale. Non furono mai autorizzate né le visite dei campi né la distribuzione di soccorsi.
Il Grande Reich, insomma, si considerava al di sopra di ogni legge. E quelli della Repubblica sociale, timidi servi, davanti al Grande Reich s inchinavano.