Il testo integrale della sentenza emessa il 9 giugno 1999 dal Tribunale Militare di Torino
contro Theo Saevecke responsabile dell’eccidio di Piazzale Loreto a Milano.

Alcuni dei passaggi cruciali della sentenza:

“Secondo la ricostruzione dell’organigramma delle forze tedesche, in Italia Saevecke rivestiva a Milano il medesimo ruolo che ebbe Kappler a Roma”.

“All’esito del dibattimento appare indubbia la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli”.

“Logicamente v’è da supporre che il Saevecke non potesse essere l’unico ideatore dell’orrenda strage; la coesistenza, nello stesso albergo Regina in Milano, degli uffici interregionali e provinciali delle sezioni “SIPO-SD” (alle dipendenze rispettivamente di Rauff e di Saevecke), la sede, nella vicina Monza, del Comando delle “SS” per l’Italia Nord, sono tutti elementi che inducono a ritenere che la cd. rappresaglia ebbe più di un padre”. (…) “Queste considerazioni, peraltro, giuridicamente non incidono sul giudizio di responsabilità di cui oggi è processo; anche ammettendo che il progetto criminale ebbe origine dai superiori, il Saevecke vi aderì pienamente, come gli appartenenti alle “SS” erano abituati a fare, dando precise disposizioni in ordine alle modalità di esecuzione ivi compreso l’ordine di mantenere esposti i corpi delle vittime a monito di tutti gli oppositori”.

Perché non si può parlare in questo caso di “rappressaglia”.

“La mole di documenti probatori, la “freschezza” delle dichiarazioni testimoniali, la passione profusa dalle parti processuali nel sostenere il proprio ruolo hanno fatto dimenticare che si trattava di fatti accaduti più di mezzo secolo fa”.

Concesse le attenuanti generiche, ma procedendo “alla comparazione delle circostanze aggravanti ed attenuanti, ritenute sussistenti nel presente procedimento, osserva il Collegio che le prime prevalgono sulle seconde”.

Il Testo Integrale

 

N. 1619/96 R.N.R.

 

N. 0409/97 RGU.D.

 

TRIBUNALE MILITARE DI TORINO

 

    REPUBBLICA ITALLANA

 

lN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Tribunale Militare, composto dai Signori:

1. Dott. Stanislao SAELI                       Presidente

2. Dott. Alessandro BENIGNI               Giudice

3. Cap. A. M. Maurizio NANNELLI      Giudice militare

 

con l’intervento del P.M. in persona del dott. Pier Paolo Rivello

ha pronunciato in pubblica udienza la seguente

 

SENTENZA

 

nel procedimento penale a carico di: SAEVECKE Theo, nato il 22/03/1911 ad Amburgo (Germania) e residente a Buchholzstr 4 – 49214 Bad Rothnfelde (Germania);

 

IMPUTATO

 

del reato di:

VIOLENZA CON OMICIDIO IN DANNO DI CITTADINI ITALIANI” (artt. 13 e 185 co. 1 e 2 c.p.m.g., in relazione agli artt. 575 e 577, nn. 3 e 4, e 61 n. 4 c.p.) per avere cagionato, quale Capitano delle Forze armate tedesche, nemiche dello Stato Italiano, la morte di:

 

1. Andrea ESPOSITO,

2. Domenico FIORANI,

3. Umberto FOGAGNOLO,

4. Giulio CASIRAGHI,

5. Salvatore PRINCIPATO,

6. Eraldo SONCINI,

7. Renzo DEL RICCIO,

8. Libero TEMOLO,

9. Vitale VERTEMATI,

10. Vittorio GASPARINI,

11. Andrea RAGNI,

12. Giovanni GALIMBERTI,

13. Egidio MOSTRODOMENICO,

14. Antonio BRAVIN,

15. Giovanni COLLETTI,

 

Tutti detenuti nel reparto carcerario di S. Vittore, inserendo i loro nominativi nella lista dei soggetti da fucilare, disponendone il prelevamento dal predetto reparto ed ordinandone poi la fucilazione, eseguita ad opera di un reparto misto della G.N.R. e della “Muti” alle ore 6:10 del 10 agosto 1944 in Piazzale Loreto, durante lo stato di guerra tra l’Italia e la Germania. La premeditata esecuzione di tali soggetti, che non prendevano parte alle operazioni belliche, si caratterizzava per la crudeltà del suo svolgimento, successivamente al quale veniva ordinato che i corpi dei giustiziati rimanessero esposti nella Piazza per l’intera giornata. La fucilazione rappresentava la rappresaglia conseguente all’esplosione, dovuta ad un attacco dinamitardo, di un autocarro tedesco posteggiato in Milano, Viale Abruzzi, esplosione avvenuta l’8 agosto 1944.

Poiché detta esplosione non cagionò il ferimento di alcun militare tedesco, bensì la morte di numerosi passanti, civili italiani, l’ordine di fucilazione non presentò l’adempimento delle direttive emanate da Kesserling, ed in base alle quali per ogni tedesco ucciso dai partigiani dovevano essere giustiziati dieci italiani.

 

 

                          In fatto ed in diritto

 

 

Il Giudice dell’udienza preliminare con proprio decreto dell’11.12.1997 rinviava Theo Saevecke, cittadino tedesco, già appartenente alle “SS” naziste, al giudizio di questo tribunale per rispondere del reato ascrittogli nella rubrica.

All’udienza del 19.06.1998, prima della apertura del dibattimento, si provvedeva, con apposita ordinanza, in ordine alla costituzione delle parti, in particolare si dichiarava la contumacia dell’imputato, assente senza addurre un legittimo impedimento.

Dichiarato aperto il dibattimento il PM svolgeva la sua relazione introduttiva, richiedendo, a conclusione, l’acquisizione di documenti probatori e l’escussione dei testi in lista. Seguivano le relazioni e le richieste delle parti civili.

La Difesa, avuta la parola, formulava una questione preliminare incentrata sull’applicabilità, per il caso de quo, dell’art. 248 CPMG. In sostanza, sosteneva la Difesa, così come l’art. 248 CPMG impone, per l’esercizio dell’azione penale a carico di Comandanti, per atti commessi nell’esercizio del comando durante lo stato di guerra, la richiesta del Ministro competente, allo stesso modo doveva richiedersi la medesima condizione di procedibilità per la perseguibilità del reato ascritto al suo assistito. Eccepiva, quindi, il Difensore il difetto di richiesta di procedimento ed in subordine, nel caso in cui il Collegio avesse ritenuto tale articolo applicabile solo a Comandanti italiani, eccepiva l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 248 CPMG nella parte in cui non equipara i Comandanti stranieri a quelli italiani, come imposto dagli artt.10 e 103 Cost.

La questione veniva ampiamente dibattuta dalle parti in contraddittorio e, a seguito del quale, risolta dal Collegio, con apposita ordinanza per le motivazioni in essa contenute. La Difesa, pertanto, procedeva nella sua relazione introduttiva ed, infine, richiedeva l’ammissione di prove documentali e l’escussione del teste indicato in lista. In ordine all’ammissione delle prove il Collegio vi provvedeva con ordinanza motivata. All’esito dell’istruzione dibattimentale, articolatasi in molte udienze, le parti formulavano ed illustravano le loro conclusioni.

In particolare il PM ha concluso per l’affermazione di responsabilità dell’imputato in ordine al reato come ascrittogli, esclusa qualsiasi attenuante, e per la condanna all’ergastolo. Del medesimo tenore le conclusioni e le richieste delle parti civili con ulteriore richiesta del risarcimento danni.

La Difesa, invece, ha concluso, in via principale, per l’assoluzione del suo assistito; in linea subordinata, previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti, il minimo della pena.

Il fatto per cui si procede riguarda l’uccisione di quindici italiani, detenuti nel carcere di San Vittore in Milano, all’alba del 10 agosto del 1944 nel Piazzale Loreto di quella Città.

Appare opportuno in primo luogo superare la problematica sulla giurisdizione di questa Autorità Giudiziaria Militare a conoscere del reato de quo.

In altri procedimenti analoghi, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito in ordine all’appartenenza delle “SS” alle Forze Armate tedesche ed alla conseguente assoggettabilità dei loro membri alla giurisdizione penale militare. n Saevecke, come risulta da una serie di documenti, ritualmente ammessi, faceva parte delle “SS” con il grado di Capitano e, all’epoca dei fatti contestatigli, ricopriva l’incarico di responsabile per la Lombardia della ” SIPO-SD” (Polizia e Servizio di sicurezza).

Né vale quanto asserito, in varie occasioni, dall’imputato, in ordine alla sua appartenenza allo sceltissimo Corpo delle “SS”, e cioè che egli fu quasi costretto ad indossare l’uniforme del suddetto Corpo a seguito della riforma del 27.9.39 che unificò, con la creazione dell’Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), tutte le forze di polizia (egli proveniva dalla Polizia di Stato). In primo luogo è irrilevante la volontarietà o meno dell’appartenenza ad un Corpo Militare per essere sottoposti alla giurisdizione militare; in secondo luogo appare

inverosimile che si venisse cooptati all’interno di una struttura a cui vennero affidati i compiti più delicati e, per questo, depositaria e custode dei principi ispiratori del Nazismo.

E’ indubbia altresì l’appartenenza del Saevecke, fin dall’età giovanile, alle famigerate “SA», come da lui stesso riferito nel suo “curriculum vitae” del 1940, acquisito in atti che lo qualifica come profondo assertore dell’ideologia nazista, qualità ritenuta essenziale per l’ingresso nel corpo d’élite delle “SS”.

Dall’archivio dell’Ufficio dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi è tratta una fotografia ricordo, che ritrae tutti gli appartenenti alla SIPO-SD di Milano, in cui Saevecke figura nella uniforme di “SS” dietro il suo superiore Col. Rauff. Secondo la ricostruzione dell’organigramma delle forze tedesche, in Italia Saevecke rivestiva a Milano il medesimo ruolo che ebbe Kappler a Roma.

Accertata l’appartenenza di Saevecke alle “SS” non appare, pertanto, opportuno aggiungere nulla rispetto a quanto già detto dalla Suprema Corte in ordine all’assoggettabilità alla giurisdizione militare degli appartenenti a quel Corpo. All’esito del dibattimento appare indubbia la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli. Tale certezza deriva non solo dalle testimonianze rese in dibattimento, ma, soprattutto dalla corposa quantità di documenti che l’Ufficio del PM è riuscito a rintracciare nei vari archivi storici e giudiziari.

Trattasi di documenti, provenienti da fonti ufficiali o dallo stesso imputato, ritualmente indicati ed ammessi come fonti di prova. Documentalmente provato è rimasto, infatti, che l’iniziativa di intraprendere una qualsiasi azione di rappresaglia spettasse ai comandi delle sezioni “SIPO-SD” e solo nel caso in cui non era possibile contattare un comando “SD” ed in caso di flagranza, tale iniziativa poteva essere presa dal Comando Militare presente nel territorio. Ciò importa che le azioni che portarono all’uccisione dei quindici detenuti non poterono che essere decise dal Comando SIPO/SD (polizia di sicurezza) di Milano che aveva al vertice il Capitano Saevecke.

Tale logica deduzione viene del resto suffragata (ed acquista, perciò, valore di cosa certa) da un documento (proveniente dall’archivio federale di Berlino ed acquisito agli atti) con cui, relazionando della situazione nel Nord Italia nel periodo 1-15 agosto del 1944, il comando “SD” fa espresso riferimento alla strage come compiuta in risposta ad una serie di attentati posti in essere dai GAP in Lombardia.

Appare opportuno citare testualmente tale documento: “Nel periodo compreso tra il 21 luglio ed il 10 agosto 1944 gruppi simili (GAP NdA) hanno compiuto molti attentati dinamitardi e terroristici a Milano e dintorni. In risposta, il 10.8.44, quindici detenuti della Polizia di Sicurezza sono stati pubblicamente fucilati in una piazza di Milano. A fine intimidatorio, i cadaveri sono stati lasciati sulla piazza per un giorno. Tramite avvisi sui quotidiani e cartelloni per la strada è stato dichiarato che dovrebbero essere giustiziate 25 persone in totale, ma

che non si procederà alla fucilazione delle altre 10 se non saranno compiuti ulteriori atti di sabotaggio.”

Le medesime informazioni erano contenute in un “comunicato” del Comando SD di Milano (di cui, si ripete, era Comandante Saevecke) affisso nelle vie di Milano, e pubblicato dagli organi di stampa, all’indomani della strage.

Per meglio comprendere la rigida sfera di competenza tra la SIPO/SD e il Comando Militare, nello stesso periodo, quest’ultimo, ragguagliando il Comando tedesco sulla situazione dell’Alto Comando di Milano, riferiva i medesimi atti terroristici (con particolare riferimento all’attentato di viale Abruzzi in cui si dice testualmente essere morti nove italiani e molti altri feriti) e comunicava che “a causa dei fatti recenti il Comando delle truppe di sicurezza ha anticipato il coprifuoco…..”; come si vede ben poca cosa rispetto alla ritorsione operata dalla “SIPO/SD”.

Dalle testimonianze raccolte dall’Ufficio dei procedimenti contro

criminali di guerra tedeschi nel 1946 (acquisibili al dibattimento in

quanto atti di altro procedimento ex art. 238 n.3 CPP) assumono

particolare rilevanza le dichiarazioni rese da Morgante Elena,

segretaria di Saevecke all’epoca dei fatti; di Krause Eugen, alle dirette

dipendenze di Saevecke in qualità di Tenente delle SS “SD”; di

Schomm Franz ~ interprete del Colonnello Goldbeck, governatore

militare della Città di Milano.

Da tali dichiarazioni si evince con chiarezza l’organigramma delle

autorità tedesche in qualche modo interessate all’eccidio.

Responsabile SD delle “SS” per la Lombardia, Piemonte e Liguria era il Colonnello Rauff, diretto superiore di Saevecke, con gli uffici aventi sede in Milano; responsabile SD delle “SS”,(si ricordi che la sezione “SD” delle “SS” era l’unica abilitata a disporre le rappresaglie) per la Lombardia era il Cap. Saevecke; Capo delle “SS” per l’Italia Nord Ovest era il Gen. Von Tensfeld con sede in Monza; a capo del comando militare tedesco in Milano era il Gen. Von Goldbeck. Orbene, sia per il ruolo ricoperto (responsabile della sezione “SD” per Milano), che istituzionalmente riconduce al suo ufficio la preparazione e l’esecuzione delle modalità dell’eccidio, sia per tutte le testimonianze rese in dibattimento appare evidente che il Saevecke diede materialmente l’ordine di eseguire la fucilazione dei quindici detenuti.

Sempre dall’archivio dell’Ufficio dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi illuminante appare la dichiarazione di Elena Morgante segretaria di Saevecke: ” ….Io personalmente presentai questa lista al capitano Saevecke e gli chiesi di ridurla ulteriormente a quindici nominativi, cosa che egli fece.” Anche fra i testi sentiti in dibattimento vi è concordia nell’indicare l’imputato come una sorta di “deità” (cfr. deposizione Montanelli) all’interno del carcere di San Vittore in Milano da cui sono state tratte le vittime dell’eccidio. I testi Melli e Montanelli hanno dichiarato che il potere di Saevecke si estendeva perfino alla possibilità di far liberare personaggi di primo piano nella lotta antifascista come Ferruccio Parri e lo stesso Montanelli. Non risulta che per tali liberazioni (peraltro dallo stesso imputato rivendicate a suo merito) egli abbia subìto conseguenze dai superiori. Ciò implica logicamente l’assolutezza dei suoi poteri, libero da qualsivoglia controllo sia pure del suo superiore diretto che aveva i suoi uffici nello stesso stabile, all’Hotel Regina in Milano.

Logicamente v’è da supporre che il Saevecke non potesse essere l’unico ideatore dell’orrenda strage; la coesistenza, nello stesso albergo Regina in Milano, degli uffici interregionali e provinciali delle sezioni “SIPO-SD” (alle dipendenze rispettivamente di Rauff e di Saevecke), la sede, nella vicina Monza, del Comando delle “SS” per l’Italia Nord, sono tutti elementi che inducono a ritenere che la cd. rappresaglia ebbe più di un padre.

Dalla dichiarazione all’Ufficio dei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi della Morgante si evince che il Saevecke venne contattato dal Gen. Von Goldbeck, all’indomani dell’attentato in viale Abruzzi, che gli chiedeva sessanta ostaggi da fucilare per rappresaglia, ma egli riuscì a convincerlo a ridurre prima a venti e poi a quindici il numero delle vittime. A prescindere da possibili inesattezze circa l’interlocutore (il Saevecke non poteva prendere ordini dal Comandante militare di Milano Gen. Von Goldbeck) è plausibile che tutti i responsabili degli uffici SIPO SD e delle “SS” venissero coinvolti in un’operazione di tale portata. Così come è da ricercare nella volontà di coinvolgere quanto più possibile gli italiani nell’attività di repressione, che venne richiesto l’intervento della legione “Muti” per eseguire materialmente l’eccidio.

Queste considerazioni, peraltro, giuridicamente non incidono sul giudizio di responsabilità di cui oggi è processo; anche ammettendo che il progetto criminale ebbe origine dai superiori, il Saevecke vi aderì pienamente, come gli appartenenti alle “SS” erano abituati a fare, dando precise disposizioni in ordine alle modalità di esecuzione ivi compreso l’ordine di mantenere esposti i corpi delle vittime a monito di tutti gli oppositori. Non avrebbe del resto potuto essere diversamente in considerazione del fatto che la rappresaglia venne decisa a seguito dell’attentato in viale Abruzzi a Milano e, quindi, competente era l’ufficio “SIPO-SD” di Milano diretto dal Saevecke.

Pacifica è la giurisprudenza della Suprema Corte sul punto: “la partecipazione morale nel reato si manifesti indifferentemente con qualsiasi attività che….(omissis)….rappresenti un contributo causale alla sua verificazione” (Cass. SS.UU.. 28.11.81). Occorre a questo punto valutare se, nell’azione posta in essere dall’imputato, possano rinvenirsi profili di non punibilità.

In particolare appare necessario esaminare le questioni della rappresaglia e della repressione collettiva.

In ordine alla prima questione, che potrebbe integrare quel giustificato motivo discriminante la condotta illecita di cui all’art. l85 CPMG, occorre subito sottolineare che, a causa dell’attentato in viale Abruzzi, cui il comando tedesco collegò la rappresaglia, non venne registrata nessuna vittima di nazionalità tedesca; qualche dubbio in proposito, sollevato anche da qualche storico, appare fugato dal documento acquisito in atti proveniente dal Comando della G.N.R. in cui si dava notizia dell’attentato e si elencavano le vittime ed i feriti, tutti italiani. Tale circostanza, ormai non revocabile in dubbio, escluderebbe qualsivoglia possibile legittimo ricorso alla rappresaglia quale istituto di diritto internazionale bellico.

La migliore dottrina insegna, infatti, che l’istituto della rappresaglia si fonda sulla possibilità di attribuire ad uno Stato, colpito nei propri interessi, una capacità di autotutela preventiva e repressiva nei confronti dello Stato aggressore. Proprio perché la rappresaglia è una risposta ad un illecito, sono state individuate delle condizioni per il suo legittimo esplicarsi:

1) occorre che vi sia stata una lesione di un diritto o di un interesse dello Stato;

2) che l’atto di rappresaglia abbia i caratteri della proporzionalità rispetto all’offesa arrecata;

3) che venga attuata senza mai violare i più elementari valori umani.

 

Nel caso di Piazzale Loreto nessuna delle condizioni richieste per un legittimo esercizio della rappresaglia sembra sussistere. Nessun contrasto tra Stati sovrani (i G.A.P. non avevano alcun riconoscimento internazionale) da risolversi con norme di diritto internazionale bellico; nessuna lesione a diritti od interessi tedeschi, poiché tra le vittime registrate nell’attentato di viale Abruzzi nessuna era di nazionalità tedesca (così che non avrebbe potuto nemmeno invocarsi l’applicazione del bando Kesserling), nessuna proporzione tra l’offesa arrecata allo Stato tedesco (un automezzo distrutto ed il ferimento “leggero” dell’autista tedesco) e l’uccisione di quindici italiani.

Del resto nessun tentativo risulta essere stato effettuato dalle forze di sicurezza per rintracciare gli autori dell’attentato di Viale Abruzzi, talché non è possibile invocare neanche la necessità della rappresaglia.

E’ noto che le forze tedesche, nel periodo d’interesse, si trovassero in gravi difficoltà; non a caso è proprio in quel periodo che si verificano le più feroci repressioni contro ogni opposizione ad un regime che si rende conto ogni giorno di più della sua sconfitta. Orbene in questo clima potrebbe sostenersi la “necessità bellica” di ricorrere alla rappresaglia. Invero, secondo l’unanime dottrina, è da ritenersi legittima la rappresaglia, presenti tutte le altre condizioni, quando essa appaia necessitata dall’inutile effettuazione di tutte le possibili investigazioni atte all’identificazione ed alla cattura degli autori dell’atto illecito, ma poiché nessun tentativo venne fatto per assicurare alla “giustizia” gli autori dell’attentato, anche sotto il profilo della necessità bellica la rappresaglia fu illegittima. Inapplicabile al caso concreto appare, infine, il ricorso alla categoria della “repressione collettiva”.

Tale istituto è disciplinato dall’art. 50 della Convenzione dell’Aja del 1907 nell’ambito di una serie di prescrizioni tutte riconducibili a sanzioni di tipo economico, del tutto diverse, quindi, da quella in esame.

Appare superfluo sottolineare che l’attributo “collettive” allontana irreversibilmente la possibilità di qualificare l’uccisione di più persone come una repressione collettiva, non essendovi nulla al mondo di più “singolare” della vita; in tal senso tipica repressione collettiva è la requisizione di beni pubblici quali edifici pubblici, biblioteche, musei ed altro. Del reato sussistono, pertanto, tutti gli elementi materiali e morali e risulta commesso in assenza di qualsivoglia causa di giustificazione.

La contestazione include anche le aggravanti della premeditazione e dell’aver agito con crudeltà verso le persone.

La premeditazione presuppone necessariamente due elementi: il primo di natura cronologica (deve sussistere un apprezzabile lasso di tempo tra l’ideazione criminosa e la sua realizzazione); il secondo di natura psicologica, ravvisato nella persistenza della risoluzione criminosa che perdura nell’agente dalla ideazione alla commissione del reato. Secondo la giurisprudenza della S.C., infatti, è indispensabile che ricorra uno spazio temporale tra l’ideazione e l’esecuzione del proposito criminoso, durante il quale esso si rafforza e si consolida, ma anche e soprattutto durante il quale vengono altresì studiate le modalità e predisposti i mezzi esecutivi del reato (Cass. sez. I, 1995, n.201739).

Secondo la ricostruzione dei fatti, operata in dibattimento, risulta che la decisione dell’eccidio venne presa, quale risposta del Comando tedesco, immediatamente dopo la notizia dell’attentato di Viale Abruzzi dell’8.8. 1944.

Quali le modalità, gli esecutori, il luogo, coloro che dovevano essere uccisi furono decisioni prese tra i giorni 8 e 9 e furono decisioni prese o avallate dal Saevecke. Illuminante a tal proposito la deposizione, già citata, della Morgante: “Io personalmente presentati questa lista al Cap. Saevecke. Chiedendogli di ridurla a quindici, cosa che egli fece…”. Il Sergente dell'”SS” Anton Heininger il 2.12.46 agli inquirenti per i procedimenti contro i crimini di guerra tedeschi ebbe a dichiarare: “verso agosto del ’44 fui chiamato insieme con Jarsko, dal Cap. Saevecke; ci furono date istruzioni di recarci al mattino successivo al carcere di San Vittore e di seguire un convoglio di soldati italiani, che sarebbe partito con autocarri dal carcere predetto; avevamo l’obbligo di riferire al capitano se la fucilazione di alcuni detenuti civili italiani aveva avuto luogo o meno…. (omissis) dopo che la fucilazione ebbe luogo ritornai al mio servizio normale e Jarsko si occupò di riferire, secondo le istruzioni ricevute, al capitano Saevecke”.

Da tali elementi il Collegio trae il convincimento della sussistenza della premeditazione: aver preparato affinché altri eseguissero l’eccidio (legione Muti); aver ordinato ai suoi dipendenti di verificare che le modalità, da lui stabilite, venissero rispettate; aver emanato un comunicato (acquisito in copia agli atti) in cui si dava atto di quanto compiuto e si promettevano, nel caso di prosecuzione degli attentati, altre esecuzioni pubbliche, tutte circostanze sussistenti e richieste dalla citata giurisprudenza per ritenere sussistente l’aggravante contestata.

L’ulteriore aggravante contestata, dell’aver agito con crudeltà verso le persone ex art. 61 n.4 CP, necessita per la sua configurabilità, che la condotta criminosa, nelle sue modalità specifiche, manifesti un “quid pluris” rispetto agli ordinari mezzi di esecuzione del reato, in quanto la malvagità dell’agente e la sua insensibilità a qualsivoglia richiamo umanitario fa sì che si fuoriesca dal normale processo di causazione dell’evento (Cass. sez. I, 1993, n. 196417).

Il Saevecke ordinò che, a monito per la popolazione, i cadaveri delle vittime rimanessero esposte nel piazzale per 24 ore (numerose le foto dei giornali dell’epoca acquisite agli atti). Solo a seguito delle insistenze del clero fu permesso ai familiari di dare cristiana sepoltura ai caduti. Il cinismo di tali comportamenti ben integrano, a parere del Collegio, quegli elementi necessari a configurare l’aggravante de quo.

Applicabili al reato in esame appaiono, inoltre, le cd. attenuanti generiche ex art. 62 bis CP. Introdotte con il DDL 14.09.1944 n.288, (nella vigenza dello stato di guerra), ai sensi e per gli effetti dell’art. 23 CPMG esse trovano legittima applicazione, per i reati previsti dal Codice Penale Militare di Guerra, anche per i fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore del DDL 288/44.

Espressamente richieste dalla Difesa, le attenuanti di cui all’art. 62 bis CP appaiono concedibili.

E’ noto che le predette attenuanti non possono costituire una benevola concessione del giudice al di là di valutazioni comunque ancorabili al

fatto-reato da un lato e alla valutazione della personalità del reo dall’altro. Pacifico è inoltre che la concessione delle predette attenuanti non implichi da parte del giudice una valutazione di non gravità del reato; la S.C. ammette, infatti, la concessione delle attenuanti generiche anche a fatto-reato di eccezionale gravità (cfr. Cass. sez. VI, 1991 n.189245). Ciò è possibile, ovviamente, prendendo in esame non il fatto-reato bensì il reo, ed, in particolare, la sua capacità a delinquere.

A favore del Saevecke militano comportamenti anteriori e successivi al reato ascrittogli.

 

E’ stato accertato che egli permise la fuga dal carcere di diversi partigiani (fra cui il futuro Presidente del Consiglio Ferruccio Parri), non fu estraneo alla rocambolesca fuga di Indro Montanelli (cfr. verbale testimoniale) ed, infine, non fu insensibile alle richieste di “grazie” particolari da parte della Curia Milanese.

Per quanto già detto (riguardo alla sussistenza dell’elemento psicologico) è verosimile che il Saevecke abbia disposto il massacro di Piazzale Loreto non già per soddisfare la malvagità del suo animo bensì perché chiamato ad assolvere un compito, obiettivamente delittuoso, consequenziale alla funzione da lui svolta in seno alla sua organizzazione; ciò attiene alla gravità dei motivi a delinquere, elemento valutabile ai fini della concessione delle attenuanti de quo.

Per ciò che riguarda poi la condotta susseguente al reato è da osservare che il Saevecke, contrariamente ad altri responsabili di fatti analoghi, non si è mai nascosto né mai sottratto alle numerose inchieste penali ed amministrative che nel corso degli anni gli chiedevano conto del suo operato; risulta che egli abbia concluso la propria carriera quale vice Capo della Polizia della Repubblica Federale Tedesca.

Per tutte le considerazioni enumerate appare il Saevecke meritevole delle attenuanti generiche. Dette attenuanti vanno sicuramente comparate con le sussistenti aggravanti. Il Collegio, infatti, ritiene di non dover aderire alla tesi contraria autorevolmente sostenuta in caso analogo.

Il principio di ultrattività sancito dall’art. 23 CPMG secondo cui “per i reati preveduti dalla legge penale militare di guerra, commessi durante lo stato di guerra, si applicano sempre le sanzioni penali stabilite dalla legge suindicata, sebbene il procedimento penale sia iniziato dopo la cessazione dello stato di guerra, e ancorché la legge penale militare di pace o la legge penale comune non preveda il fatto come reato o contenga disposizioni più favorevoli per il reo”, non può estendersi a contenuti non strettamente previsti dalla norma.

Non è ammissibile, infatti, interpretazione estensiva di norme eccezionali in contrasto addirittura con principi cardine dell’ordinamento giuridico. L’art. 23 si riferisce esplicitamente e soltanto a “sanzioni penali” o a “disposizioni più favorevoli per il reo”; non sembra che il criterio di

comparazione tra circostanze di reato, di cui all’art. 69 CP., appartenga all’uno o all’altra categoria. Non alla categoria delle sanzioni penali perché intuitivamente esse si riferiscono alle tassative conseguenze penali che il legislatore collega alla commissione di un fatto-reato; non alla categoria delle disposizioni più favorevoli al reo poiché la norma sulla comparazione di per sé è neutra nel senso che solo in concreto e solo nel caso di prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto a quelle aggravanti può risultare più favorevole al reo. Del resto pacificamente è stata ammessa, anche per i reati previsti e puniti dal CPMG, l’applicabilità delle attenuanti generiche, norma sicuramente più favorevole al reo, entrata in vigore solo nel settembre 1944 e cioè dopo la commissione di fatti-reato oggetto di giudizio.

Procedendo, pertanto, alla comparazione delle circostanze aggravanti ed attenuanti, ritenute sussistenti nel presente procedimento, osserva il Collegio che le prime prevalgono sulle seconde. La particolare gravità delle sussistenti aggravanti, tanto che il legislatore ha previsto pene diverse (e addirittura la pena detentiva perpetua), rispetto a circostanze attenuanti previste come discrezionali e dunque con una valenza obiettivamente minore di caratterizzazione del fatto criminoso, inducono a tale conclusione. L’affermata subvalenza delle riconosciute circostanze attenuanti generiche rispetto alle contestate e sussistenti aggravanti, comporta, in applicazione dei principi di cui all’art. 157 CP, l’imprescrittibilità del reato di cui alla rubrica.

Ciò si ricava dal tenore letterale della norma citata in relazione a quella dell’art. 577, c. 1° n.3 e 4 CP, che prevede l’applicazione della pena dell’ergastolo. Che questa sia l’interpretazione corretta si deduce dalla stessa relazione ministeriale sul progetto del Codice penale che così recitava: “affinché l’istituto della prescrizione risponda alle ragioni di opportunità politica su rilevate, è necessario che si sia quasi perduta la memoria del fatto criminoso e che l’allarme sociale, da esso suscitato, sia scomparso. Or una così radicale e profonda modificazione di cose non si verifica per i reati atroci e gravissimi, che lasciano nella memoria degli uomini un’orma e un ricordo tanto pauroso da non eliminare mai completamente l’allarme sociale”.

Ebbene pur essendo trascorsi ben 55 anni dall’orrenda strage per cui è processo, il tribunale ha potuto verificare “de visu” la preveggenza e la saggezza del legislatore del 1930. Tutti i testimoni che sono sfilati innanzi al Collegio hanno dimostrato, con l’emozione nelle voci con le lacrime e con ogni altro segno di partecipazione, di avere impresso indelebile nella memoria quanto hanno visto e udito in relazione alla vicenda processuale. La vivacità dei ricordi, ben più nitidi di quelli riguardanti fatti recentissimi ma di poco o nullo allarme sociale, ha permesso al Collegio di allontanare da sé il pericolo (gravissimo in un giudice imparziale) di considerarsi “giudice della storia”. La mole di documenti probatori, la “freschezza” delle dichiarazioni testimoniali, la passione profusa dalle parti processuali nel sostenere il proprio ruolo hanno fatto dimenticare che si trattava di fatti accaduti più di mezzo secolo fa.

Quanto alla pena, avuto riguardo ai criteri di cui all’art. 133 CP n.1, 2 e 3, il Collegio ritiene adeguata quella dell’ergastolo. Alla condanna segue per legge l’obbligo del pagamento delle spese del giudizio. In ordine alle richieste di risarcimento del danno presentate dalle parti civili, il Collegio, ritenute congrue e conformi a legge le somme indicate dalle parti civili quali spese processuali, condanna il Saevecke al loro risarcimento in sede provvisoriamente esecutiva; per ciò che attiene alle ulteriori somme richieste a titolo risarcimento danni, il Collegio sul presupposto che appare indubbio che il reato accertato ha comportato, in rapporto di diretta causalità, danni morali e materiali giuridicamente apprezzabili, e nella considerazione del numero e della complessità delle situazioni, alla luce dell’art. 539 CPP provvede alla generica condanna del Saevecke al risarcimento, rimettendo le parti innanzi al competente giudice civile.

 

PQM

 

letti gli artt. 533 e 535 CPP

 

DICHIARA

 

Saevecke Theo, contumace, responsabile del reato ascrittogli e concesse le attenuanti generiche subvalenti rispetto alle contestate e sussistenti aggravanti, lo

 

C O N D A N N A

 

alla pena dell’ergastolo; spese e conseguenze di legge. Condanna, inoltre, il medesimo al pagamento delle spese processuali come richieste e al risarcimento dei danni morali e patrimoniali alle parti civili, da liquidarsi in separata sede. Dispone la provvisoria esecuzione della condanna al pagamento delle spese processuali sostenute dalle parti civili.

 

Torino, nove giugno millenovecentonovantanove

                         

 IL PRESIDENTE ESTENSORE

                              – dott. Stanislao SAELI –