Pubblichiamo il testo di un intervento letto domenica 7 maggio 2006 da Miuccia Gigante, segretaria nazionale dell’ANED, sul piazzale dell’appello del campo di Mauthausen, nel corso delle manifestazioni per il 61° anniversario della liberazione di quel campo.

Sono Miuccia Gigante, figlia della Medaglia d’Oro al Valore Militare Vincenzo Gigante assassinato nella Risiera di San Sabba in Trieste. La Risiera di San Sabba venne trasformata dalle SS. in luogo di tortura e campo di sterminio di partigiani e patrioti, italiani e sloveni,  ebrei e civili, razziati durante azioni di rastrellamento. Circa 5.000 furono uccisi, mentre più di 20.000 prigionieri passarono dalla Risiera per raggiungere altri lager. Questo è l’unico vero campo di sterminio con forno crematorio creato dai nazisti in Italia a somiglianza di quelli del Terzo Reich.

Sono nata a Lugano in casa dei miei nonni che avevano fatto della loro casa un sicuro rifugio agli antifascisti perseguitati che scappavano dall’Italia per raggiungere la Francia, il Belgio, la Russia; oltre il vitto e l’alloggio venivano forniti di denaro e di documenti falsi. Qui mia madre trovò rifugio dopo essere stata espulsa dal Belgio per ragioni politiche, con mio padre,  funzionario del P.C.I. Nel Belgio i miei facevano la fame, mio padre continuava a svolgere il lavoro sindacale e di propaganda fra i minatori; alcune volte nelle loro famiglie mia madre, che era incinta,  trovava una zuppa calda.

Non ricordo mio padre, avevo pochi mesi quando fu arrestato a Milano durante uno dei viaggi clandestini in Italia.

Venne condannato dal Tribunale Speciale a 20 anni di reclusione.
La sentenza afferma che “nel corso del ’33 si intensifica in ogni parte d’Italia l’azione comunista, alimentata dai corrieri e funzionari provenienti dall’estero che riuscirono a contaminare anche i piccoli centri industriali.
A Milano erano riusciti a impiantare una attrezzata tipografia.
Costituzione del P.C.I., appartenenza allo stesso e propaganda”.

Tanti furono i tentativi di mia madre di visitare il marito in carcere, ma vani, in quanto era segnalata a tutte le frontiere.

Quando a sei anni ho iniziato la prima elementare nelle scuole comunali di Lugano, molte furono le minacce continue dei fascisti luganesi che volevano costringere la mia famiglia a iscrivermi alla scuola del Fascio, frequentata da bambine di nazionalità italiana, dove l’insegnamento era improntato sulla cultura fascista.Questo atteggiamento provocatorio costrinse i miei a rivolgersi alle autorità svizzere, tanto che per un certo periodo venivo accompagnata alle lezioni da un gendarme.

Queste e altre difficoltà obbligarono mia madre a un passo doloroso, chiedere la separazione da mio padre e assumere lei, in qualità di cittadina svizzera, la patria potestà.

Sono cresciuta nella casa dei nonni, con mia mamma impegnata a scrivere volantini, a ciclostilarli e a falsificare documenti per i compagni che passavano da casa e clandestinamente andavano in Italia. Abbiamo subìto diverse perquisizioni da parte della polizia svizzera, ma l’abilità di mia mamma ed il suo sangue freddo ci hanno sempre evitato noie con le autorità.

Mio padre scontò 9 anni nelle carceri di Civitavecchia; non sempre riuscivamo ad avere sue notizie, spesso era in isolamento; io gli scrivevo lunghe lettere raccontandogli le mie giornate. Mi piace ricordarlo attraverso le lettere che dal carcere scriveva a me, bambina, raccomandandomi di studiare quelle materie che gli confessavo noiose e di leggere, leggere molto.Dopo Civitavecchia venne inviato a confino a Ustica, un’isola vicino a Palermo dove nei giorni in cui il mare era mosso il traghetto non faceva servizio e non portava l’acqua potabile, che i confinati pagavano. In una delle sue ultime lettere ci informava di essere stato trasferito nel campo di concentramento di Renicci, vicino ad Arezzo, dove insieme ad altri detenuti, soprattutto jugoslavi, riuscì a liberarsi, dopo l’8 settembre 1943.

Sono le ultime notizie che abbiamo avuto da lui, poi più niente sino alla fine del ’45, quando venimmo a sapere della sua morte grazie all’interessamento dei suoi compagni di carcere e di chi aveva condiviso la lotta partigiana in Istria e poi in Trieste dove si trovava come segretario della Federazione del P.C.I.

Una compagna, poi deportata ad Auschwitz, mi disse di averlo incontrato nel corridoio del carcere di Trieste; usciva da un feroce interrogatorio, non si reggeva in piedi e veniva trascinato da due secondini. La stessa mi ha detto che in simili condizioni e con le torture subìte, Gigante non avrebbe potuto reggere a lungo.

La motivazione della Medaglia d’Oro indica la data della morte nel Novembre 1944. La data della sua morte, forse resterà sempre sconosciuta, ma quello che resta di lui è certo il suo impegno di antifascista e di comunista, la sua coerenza, la sua onestà di pensiero, la sua dignità nell’affrontare il carcere, il confino, la lotta partigiana, le torture, la morte, senza mai tradire quella che era stata l’essenza di tutta la sua vita.

Non passa giorno che non mi rivolgo a lui con il pensiero, e, se anche con una profonda nota di tristezza, mi sento fortunata d’aver avuto, da lui, da mia mamma e dai miei, tanti insegnamenti; esempi che mi hanno dato modo di fare delle scelte fra le cose che hanno un valore e quelle insignificanti e superficiali.A mio padre di tutto questo devo dire Grazie e sentirmi orgogliosa di essere sua figlia