Non vorrei essere qui sola a parlarvi dell’assistenza al Campo di concentramento di Bolzano, perché con me potrebbero parlarvene intere famiglie delle casette semirurali, operai e dirigenti di vari stabilimenti della zona industriale e tante altre persone che con la loro attiva e coraggiosa collaborazione hanno reso possibile la nostra attività.

Franca Turra durante la guerra a Bolzano

Non vi faccio la storia della Resistenza in Alto Adige, ma solo di un aspetto di essa. Cerco semplicemente, pescando nella mia memoria anche fatti poco rilevanti, di ricostruire l’atmosfera di quel tempo e di raccontarvi come venne organizzata ed attuata l’assistenza ai perseguitati dal nazi-fascismo.

La ferocia della repressione nazista, che come primo atto si concretò in Bolzano l’8 settembre con l’ammassamento dei nostri soldati nel greto del Talvera tenuti a bada dalle raffiche delle mitragliatrici dei carri armati e con la contemporanea azione di terrore svolta per le vie della città nei confronti della popolazione, determinò una prima reazione di ribellione spontanea e un sentimento di assoluta solidarietà nei confronti delle vittima di tale repressione.

Quel tragico giorno, che molti di voi ricorderanno. segnò l’inizio della nostra opera di assistenza. Non si poteva negare rifugio a quei militari che erano riusciti a sfuggire alla cattura. Era prevista la pena di morte per coloro che davano rifugio ai soldati italiani. Ma questo pensiero ci colpiva solo in astratto; di fatto ogni qualvolta si presentava l’occasione di aiutare chi era in pericolo prendeva in noi il sopravvento quell’irrefrenabile sentimento di solidarietà. Li nascondevamo nelle nostre case e facilitavamo la loro fuga.

Nei giorni che seguirono l’8 settembre, da Bolzano passavano treni e treni carichi di soldati e civili, che venivano deportati in Germania. Erano carri bestiame pieni di giovani disperati strappati alle loro famiglie e alle loro case. Nella sosta alla stazione ci buttavano dalle feritoie lettere per le loro mogli e madri, ci chiedevano pane sigarette e conforto per la loro sorte.

Questa sequenza di vagoni carichi di gente nostra non poteva non suscitare in coloro che vivevano consapevolmente tale tragedia il bisogno di reagire e di lottare per quella libertà così brutalmente repressa.

Ben presto le carceri si riempirono di prigionieri politici e Bolzano ebbe il SUO CAMPO DI CONCENTRANENTO, anticamera ai campi di eliminazione di Mauthausen, Dachau ed altri.

Dapprincipio deboli e isolati furono i nostri tentativi di aiuto alle carceri e al campo di concentramento: eravamo disorganizzati, non avevamo viveri, né vestiario, né denaro sufficiente per dare un aiuto veramente efficace. Raccoglievamo qua e là zucchero, farina, pane e indumenti

(ben poca cosa) che portavamo a sconosciuti, gente senza nome e senza volto, la più bisognosa, fidando ingenuamente nel senso di umanità dei guardiani. Lavoravamo con accanimento e non mancavano i momenti di sconforto e di sfiducia; affrontavamo giorno per giorno una vita piena di sorprese e di incognite; vivevamo una vita nostra, a parte, ignorata dai più, ribellandoci contro quel presente che ci avrebbe condotti, con metodica distruzione, alla dissoluzione degli impulsi più vitali e fattivi del nostro spirito. Ogni nostro sforzo, spinto dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare, era teso verso un solo unico scopo: la libertà.

Per me come per tante altre persone come me la Resistenza è nata così.

Il mio collegamento con la Resistenza organizzata avvenne dopo l’incontro con la medaglia d’oro Manlio Longon capo del CLN clandestino di Bolzano, che già i conoscevo per ragioni d’ufficio. Mi chiese se ero disposta a collaborare con un comitato organizzato; accettai con entusiasmo: vedevo così realizzarsi il mio impulso.

Manlio Longon mi mise in contatto con “Giacomo” – Ferdinando Visco Gilardi – membro del CLN e responsabile del settore assistenza; fu così possibile allacciare, facendo capo a Giacomo, le file sparse di tutto i gruppi già impegnati in questa attività. In stretto collegamento con me operavano le amiche Pia e Donatella Ruggero, Fiorenza e Vito Liberio, Elena Bonvicini, Giuseppe Bombasaro, Armando Condanni, Esca e Umberto Penna, ai quali facevano capo altre persone, e perdonatemi se di molti non ricordo ora i nomi.

Ognuno di noi aveva un suo pseudonimo ed agiva in una ristretta cerchia di pochi, senza diretti e personali contatti al di fuori; ciò era indispensabile per salvaguardare l’organizzazione dai gravi pericoli che comportava la nostra attività. Una delazione o anche un’imprudenza sarebbero state sufficienti per la deportazione.

Le nostre case divennero luoghi di riunioni clandestine, stazioni radio-trasmittenti e le cantine depositi di armi, viveri e materiale di propaganda.

Un’efficace organizzazione dell’assistenza fu resa possibile grazie all’organizzazione interna del campo, la quale aveva la sua base in una organizzazione clandestina guidata da un Comitato. Il rapporto tra il Comitato interno ed il CLN esterno era continuo e quasi regolare.

Venne sfruttata l’organizzazione economica del campo che forniva centinaia di lavoratori a fabbriche, cave, gallerie ecc. Questa diede l’occasione di incontri con i lavoratori di Bolzano, alcuni dei quali mostrarono la loro solida solidarietà impegnandosi nei collegamenti clandestini. I più preziosi collegamenti si ebbero dalle internate costrette ai lavori servili in squadre di pulizia delle caserme, dell’Ospedale militare, nelle abitazioni degli ufficiali e sottufficiali che si trovavano in città e presso le case semirurali, nonché dai liberi lavoratori che lavoravano nel Lager alla direzione dei laboratori interni del campo ma che abitavano in città. Questi ultimi consentirono dei collegamenti quasi regolari.

I collegamenti avvenivano generalmente per iscritto su minuscoli biglietti che venivano depositati di volta in volta in posti segreti. Rosa e Antonietta avevano creato nel casello ferroviario di Via Resia un vero ufficio postale, ma non era sufficiente un solo punto di smistamento per la posta, la sorveglianza era severa e il detenuto scoperto con qualche lettera veniva bastonato e messo in cella di segregazione. E allora si doveva cercare subito un altro mezzo di comunicazione, perché le notizie non mancassero mai: casa Pavan e casa Dal Follo erano altre cassette postali con l’aiuto dei sarti Alfredo e Nicola che andavano a lavorare nel campo.

In questo modo venivamo a conoscenza delle necessità del campo, delle eventuali partenze per la Germania e dei nuovi nominativi che si aggiungevano di volta in volta al già lungo elenco degli internati ed in particolare di quanto ci veniva richiesto per l’organizzazione di evasioni dai luoghi di lavoro e dai vagoni ferroviari in partenza per la deportazione.

Il nostro comitato preparava la tecnica dell’evasione, la comunicava al comitato del campo insieme con gli indirizzi di rifugio degli evasi. Il comitato del campo a sua volta la comunicava a quelli che dovevano evadere con le modalità da seguire. Ciò quando i contatti diretti con l’internato che doveva evadere non erano stati possibili sul posto di lavoro. Il nostro compito si svolgeva praticamente nel prendere contatti e nell’organizzazione della fuga, nel raccogliere gli evasi e nasconderli nelle nostre case per il tempo necessario a rifornirli di documenti falsi e vestiario ed instradarli verso rifugi sicuri in altre regioni. Il loro trasporto avveniva il più delle volte con gli automezzi degli stabilimenti della zona industriale, in particolare Magnesio e Lancia.

Il CLN di Milano, attraverso organizzazioni commerciali di alcune ditte e con trasporti autonomi ed in particolare con gli automezzi degli stabilimenti della zona industriale di Bolzano, ci mandava lettere, viveri e indumenti , oltre che denaro, per l’assistenza agli internati. I viveri e il vestiario venivano in gran parte confezionati da noi in pacchi differenziati l’uno dall’altro per evitare che sorgessero nei nazisti sospetti sull’esistenza di un’organizzazione clandestina, ed erano destinati ai nominativi fornitici dal Comitato interno del campo; ne abbiamo confezionati a centinaia.

Le più sospettose erano le sentinelle e fasciste e si cercava di consegnare i pacchi quando alla portineria del campo erano di servizio i militari della SOT, molto più compressivi e umani. E così arrivammo al giorno 15 dicembre 1944: Manlio Longon fu arrestato e dopo di lui Enrico Pedrotti, Ferdinando Visco Gilardi, don Daniele Longhi, Vincenzo Del Fabbro ed altri; il 19 dicembre Adolfo Beretta, Tullio Degasperi, Erminio Ferrari, Decio Frattini, Walter Masetti, Gerolamo Meneghini, Romeo Trevisan: quest’ultimo gruppo il 1° febbraio fu deportato nel campo di Mauthausen – non sono più tornati. Così anche Bolzano ebbe le sue vittime.

Fu un susseguirsi di tristi avvenimenti, che, privando la nostra organizzazione dei compagni migliori e più responsabili, demolivano in pochi giorni il nostro lavoro di molti mesi, riportandoci nuovamente alla prima fase iniziale di incertezze e disorientamento. La sofferenza per la sorte oscura che avrebbero dovuto subire i compagni arrestati, aveva in un primo momento paralizzato la nostra volontà di lotta; le prime loro notizie erano vaghe ed incerte e non servivano che a gettarci in uno sconforto sempre più grande. Eravamo rimasti un piccolo, sparuto numero di volonterosi, ci erano venuti meno i collegamenti con il campo per l’arresto di Ferdinando Gilardi.

Piccoli indizi ci aiutarono nella ripresa. La moglie di Gilardi ci in dicò un nome, bastò per allacciare la corrispondenza con il comitato interno del campo. Laura Conti, Ada Buffulini e Armando Sacchetta cominciarono ad indirizzarmi le loro missive. Le notizie dal campo non erano tranquillizzanti, i processi dei nostri compagni di Bolzano si susseguivano lasciandoci alternativamente tra la speranza e il timore; un giorno Enrico Pedrotti mi scrisse:

“Cara Anita, grazie infinite. Vi prego, fate moltissima attenzione, siamo già in troppi a soffrire. Qui é l’inferno. Fame, angoscia, botte e disperazione, passerà. Giacomo é qui sereno come sempre , malgrado la grave apprensione per la moglie, sembra arrestata e i bimbi in istituto. Vedete voi. Daniel é molto giù ma sano. Rispettivamente sono al numero 28 e 40. Io al 47. Di Angelo niente di preciso, ma manca . Cari Saluti”.

Manlio Longon ci diede l’esempio di come si moriva per la libertà. Con la sua barbara uccisione crebbe il nostro dolore e si rafforzò la nostra volontà di lotta. Per opera di Condanni ebbi il primo contatto diretto con Virginia Scalarini, incaricata dell’assistenza del CLN-Alta Italia. Da lei mi pervenivano le disposizioni del CLN-Alta Italia, il denaro e i mezzi per continuare la nostra opera di assistenza.

Luciano Bonvicini riprese in mano le fila della Resistenza in Alto Adige.

Con l’aumentare delle difficoltà e dei pericoli, le nostre capacità di lotta si affinarono di fronte al proposito delle SS di stroncare ogni tentativo di resistenza attiva; si continuava nonostante tutto ad organizzare fughe, a raccogliere armi, a distribuire propaganda. Dal febbraio 45 le partenze per la Germania furono sospese, e finalmente il 28 aprile i cancelli del campo di concentramento si aprirono.

Non é possibile concludere queste succinte note rievocative senza far cenno, almeno, al carattere saliente che distinse l’opera di assistenza degli internati al campo di concentramento; intendo riferirmi allo spirito unitario che tutti animò, qualunque fosse la provenienza o l’orientamento politico, la fede religiosa, la collocazione sociale. È il segno peculiare della Resistenza italiana, che in virtù di un’unità raggiunta non senza difficoltà e travagli, seppe coinvolgere nella lotta grandi masse di popolo per la riconquista della libertà e dell’indipendenza nazionale. Un’unità che non annullava certo le naturali differenziazioni politiche e ideali, che sorgeva da una profonda riflessione sui drammatici eventi della storia nazionale, che esercitava una spinta decisiva verso l’incontro e la sincera collaborazione come condizione di successo. Ebbene, questo spirito unitario, illuminato da un profondo senso di solidarietà umana, fummo capaci di alimentare senza il minimo cedimento, proprio e particolarmente nella nostra opera di assistenza. Mi si consenta a quatto preciso riguardo di leggervi un passo tanto semplice quanto significativo di una lettera del 17 aprile 45 da Milano di Virginia (di cui ho già detto), una delle responsabili dell’assistenza nell’ambito del CLN Alta Italia.

“(…) Fai sapere in campo – è cosa della massima importanza – che tutti i rappresentanti dei diversi partiti hanno contribuito all’acquisto e alla spedizione della merce, e che si faccia in modo che in campo la dividano d’amore e d’accordo”

Da questa semplice citazione, laddove si pone l’accento sulla partecipazione di tutti i partiti all’opera di assistenza, si avverte il clima che si era instaurato tra tutti noi: fu quello il nostro maggior merito, mi sento di dire oggi, in un periodo tanto travagliato della nostra vita nazionale. È mia profonda convinzione che il modo più degno per onorare la memoria dei caduti della Resistenza, delle vittime del campo di concentramenti di Bolzano e di tutti i campi di sterminio, sia quello di riconoscere sempre e con la decisione necessaria ciò che ci unisce e che può portare all’intesa, alla collaborazione e alla visione unitaria della realtà, piuttosto che cedere alle differenziazioni, ai contrasti e agli scontri laceranti.

Franca Turra

L’originale di questo intervento, con correzioni a mano di Franca Turra, è ora presso l’archivio della Fondazione Memoria della Deportazione.