Regia: Ferne Pearlstein

Interviste a: Mel Brooks, Rob Reiner, Carl Reiner, Sarah Silverman, Louis C.K., Joan Rivers, Chris Rock, Abe Foxman, Gilbert Gottfried

Prendete una battuta come questa. «Che cosa odiano più di ogni altra cosa gli ebrei dell’Olocausto? I costi». Fa ridere? Dipende, se la spara la spudorata comica americana Sarah Silverman, classe 1970, ebrea di origini polacche e russe, esperta in sketch iconoclasti, probabilmente sì. O perlomeno: alcuni sorrideranno dello stereotipo legato all’immane tragedia della Shoah, altri invece si sentiranno scandalizzati e offesi, anche se la battuta viene da un’israelita.

C’è da augurarsi che esca in Italia, dopo l’applaudita anteprima alla Festa del cinema di Roma, il documentario “The Last Laugh”, ovvero “L’ultima risata”, di Ferne Pearlstein. Titolo non proprio originale: un film di Friedrich Wilhelm Murnau del 1924 e una canzone di Mark Knopfler si chiamano così, solo per fare due esempi. E tuttavia qui siamo di fronte a qualcosa di profondamente diverso. In quasi 90 minuti la regista americana prova a rispondere, e in larga misura ci riesce, a un quesito estetico/morale da far tremare le vene e i polsi: l’Olocausto può essere materia di umorismo, commedia, sketch?

Volendo la domanda vale anche per l’Aids,  l’11 Settembre, il massacro degli armeni o dei tutsi, l’assalto al giornale satirico “Charlie Hebdo”,  scegliete voi. Anche se lo sterminio sistematico degli ebrei programmato da Adolf Hitler, di altre etnie e gruppi sociali, resta per molti versi qualcosa di atrocemente unico, irripetibile.

«Io parlo sempre dell’Olocausto, ma mi godo la vita, rido. L’umorismo è la sola cosa che i nazisti non capivano» dice una sopravvissuta di Auschwitz. «Non c’è nulla di umoristico nell’Olocausto» replica severo un altro scampato durante una riunione a Las Vegas. Tra questi due estremi si sviluppa l’indagine serrata di Pearlstein, che intreccia testimonianze toccanti, frammenti di film e spettacoli dal vivo, interviste a importanti attori, registi, comici e autori.

Ce n’è anche per “La vita è bella” di Roberto Benigni, premiato con l’Oscar, applaudito dovunque, e tuttavia negli anni a più riprese contestato da esponenti delle comunità ebraiche per il punto di vista adottato. «È il peggior film mai fatto» (non spiega se sull’Olocausto o in generale) accusa Mel Brooks, uno che pur nella sua lunga carriera non ha esitato a sfidare il “politicamente corretto”, in materia di nazismo e antisemitismo, con film come “Per favore non toccate le vecchiette”, “Essere o non essere” o “La pazza storia del mondo”. Difficile dimenticare la spiazzante canzoncina da musical “Springtime for Hitler in Germany”. Anche se Brooks s’è sempre fermato alle porte del lager, ritenendo impossibile fare commedia su quanto avveniva dentro quei luoghi di morte.  

Sul filo del paradosso, offrendo un ampio ventaglio di pareri sulla libertà di espressone e i “limiti” della satira, mostrando sketch oltraggiosi o gag azzeccate, il film analizza quello che costituisce un vero e proprio tabù. «I sopravvissuti dei campi di sterminio hanno un senso dell’umorismo nerissimo» sentiamo dire nell’incipit, e in effetti colpisce l’ironia quieta con la quale l’anziana signora ebrea, pur commuovendosi nel ricordo della sorella Klara o ascoltando una brutta versione di “O sole mio”, parla oggi di come quei mesi vissuti nella certezza della morte, tra stenti, botte e umiliazioni, furono resi meno insopportabili da una residua capacità di sorridere della condizione umana. Avverte però una frase piazzata sui titoli di testa: «Chi ha pianto abbastanza, rida». Giusto, ma quanto tempo deve passare prima che sia possibile?

Michele Anselmi