Natale Pia

La storia di Natale

Da soldato in Russia a prigioniero nei Lager

Joker, Novi Ligure (AL) 2004

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Con discrezione, quasi a bassa voce, questo libro di memorie racconta la storia di una doppia sopravvivenza: alla tragedia della sciagurata campagna di Russia – che si consuma, per l’autore, nell’arco di dodici mesi, tra il gennaio 1942 e il gennaio 1943 – e alla prigionia nel Lager nazista, di Mauthausen, e più precisamente in uno dei suoi peggiori sottocampi, quello di Gusen.

 
In questa seconda parte (strettamente legata, come si vedrà, dal punto di vista sia fattuale che narrativo alla prima) la testimonianza di Natalino Pia si aggiunge a un già esistente e variegato mosaico di voci che hanno raccontato le vicende degli oltre cinquecento “politici” mandati a morire a Mauthausen con il suo stesso “trasporto”, penultimo dei grandi convogli (composti da almeno 500 deportati) partiti dall’Italia per tale destinazione. Alcune sono voci note, che costituiscono rilevanti punti di riferimento nella “letteratura di Lager”: quelle di Piero Caleffi, con Si fa presto a dire fame (1954), e di Vincenzo Pappalettera, con Tu passerai per il camino (1965)[1]. Due testimonianze che hanno fondato e connotato la memoria della deportazione “politica” (ma non solo) italiana, e anche contribuito a impostare linee di ricerca storiografica (com’è il caso delle ricerche di Pappalettera sui nominativi dei deportati). Da quegli anni ormai lontani, storia e memoria della deportazione si sono intrecciate e vicendevolmente arricchite, in uno scambio reciproco che ha influenzato e influenza le voci di chi – come Natalino Pia, che ha steso questi ricordi molto di recente – racconta oggi avvenimenti di cui, nonostante la grande distanza di tempo intercorso, possiede inevitabilmente una percezione più ampia, perché li può inquadrare in un contesto più generale e più noto, e confrontarli con altre forme di memoria.
 
È dunque, questo, un libro che appartiene alla fase più recente della “letteratura di deportazione”: lo rivela il segno caratteristico dell’ampliamento della memoria autobiografica, che si estende oltre il momento chiave della deportazione, nelle due dimensioni del “prima” e del “dopo”, molto significative per il lettore d’oggi. Così il racconto comincia con le vicende familiari e iscrive le vicende della Russia e di Mauthausen in una cornice apparentemente più ampia del necessario. Meno visibile, ma comunque presente o per lo meno avvertibile nella narrazione, l’altro segno di questa “memoria lontana” [2]: il collegamento tra l’esperienza personale, gli avvenimenti storici e il confronto, anche minimo o poco esplicitato[3], con altre esperienze.
 
Ma pur con queste caratteristiche comuni ad altre memorie, il racconto di Natalino Pia procede con una sua cifra particolare. In parte ciò è dovuto all’eccezionalità della propria vicenda, che è quella già detta all’inizio di una doppia sopravvivenza. La guerra compare a volte nel racconto e nella memoria dei deportati, e più frequentemente, è ovvio, in quella frazione di internati militari finiti, con percorso anomalo in Lager (KZ) anziché nei campi di concentramento e detenzione per IMI. Ma non credo che esistano molti racconti in cui il KZ è preceduto dal Don e da Nikolajevka. E tuttavia, Natalino Pia non affianca le due vicende – la ritirata di Russia e Mauthausen-Gusen – per stupire il lettore, o per esibire l’eccezionalità della sua esperienza (di cui è, in ambito privato, e giustamente, ben consapevole). Il doppio racconto è invece necessitato da una memoria che vuole sia fissare le linee fondamentali del proprio vissuto, sia ricercare in questo vissuto un senso e una spiegazione. Per questa volontà di rielaborazione, insomma, saremmo più vicini a quella che Fortini chiama autobiografia in senso proprio, e un po’ più lontani dalla semplice memoria degli avvenimenti, comunque presente nell’intenzione e nella realizzazione, ma subordinata alla prima.
Si è però detto che la caratteristica del racconto (del libro) è quella di una “voce bassa”, di un sottotono, di una “misura onesta”[4] che tende, più che alle grandi interpretazioni, alla discrezione della dimensione personale e privata; quasi che alla narrazione il protagonista si avvii controvoglia, non solo per la difficoltà di trovare il linguaggio adeguato agli avvenimenti, ma per quel ritegno a publicizzare le proprie vicende che è testimoniato, sempre in questo volume, dalla figlia Primarosa, promotrice prima ancora che curatrice del libro. Un ritegno che tradisce un antico dolore, una ferita non cicatrizzata, quella della propria sopravvivenza a fronte dei compagni “che non ce l’hanno fatta”: è la doppia ferita dichiarata alla fine del racconto, in una pagina semplice e drammatica proprio nella sua schiettezza.
 
Che questa memoria, del resto (e questa è una cifra della letteratura di deportazione), sia una memoria sofferente e ferita appartiene pienamente alla consapevolezza dell’autore: lo dichiara nel pur lapidario e scarno “patto autobiografico” d’inizio, che nella sua spontaneità (quattro righe ridotte all’essenziale e immediate) viene poi riconfermato dalla parte conclusiva, anche qui senza artificio. È la memoria delle vite spezzate che impedisce al superstite una vita pienamente serena: “quel periodo … mi torna ancora alla mente troppo spesso per consentirmi di vivere pienamente sereno”,  “ancora oggi, benché siano trascorsi più di cinquant’anni, non passa giorno che il mio pensiero non torni alle troppe persone che non ce l’hanno fatta, e hanno perso la loro vita”.
Non si tratta di espressioni, in qualche modo, di circostanza, o figurate. La dinamica della scrittura di queste memorie lo mostra: come osserva Primarosa, la prima e unica stesura manoscritta procede “senza aggiunte, cancellature o ripensamenti”, e così è effettivamente per chi raffronti il testo, pur con i lievi rimaneggiamenti necessitati dall’edizione a stampa, con le pagine originarie. La scrittura è continua e sicura, chiara e assolutamente priva di esitazioni, come se chi scrive abbia da molto tempo impresso nella mente una versione definitiva, passata poi parola per parola sulla carta.  La stessa nota di Primarosa ci informa che l’intenzione era quella di una scrittura in qualche modo “privata”, anche se poi è subentrata la prospettiva di trasmetterla alle altre generazioni.
 
Si possono rintracciare, per questo passaggio, alcune sollecitazioni esterne, più e meno vicine: certamente, tra le prime è stata l’intervista, curata da Cesare Manganelli, per l’Archivio della Deportazione Piemontese (settembre 1983), poi confluita nel coro di voci della Vita offesa[5]. Un esempio più diretto è quello, una decina d’anni dopo, dell’amico – e a suo tempo compagno di deportazione – Felice Malgaroli con il suo libro autobiografico[6]. Infine, in seguito a un viaggio nell’aprile 1998 con studenti e insegnanti delle scuole superiori della Città di Moncalieri, l’esperienza della testimonianza resa sui luoghi, raccolta e riversata in scrittura da quei ragazzi a cui la testimonianza era rivolta[7]: una specie di nucleo, molto condensato, del presente libro, o perlomeno della seconda parte di esso.
Ma certamente tutto questo non avrebbe agito senza un lungo e ininterrotto dialogo non solo con i propri ricordi, ma anche con i luoghi. Insieme ai compagni dell’ANED (l’Associazione italiana dei deportati politici e razziali)  e anche, spesso, per conto proprio e coi suoi familiari, Pia è tornato a Mauthausen e Gusen fin dagli anni ’50; ha assistito alla trasformazione di Gusen, ha collocato e cura con attenzione, a ogni ritorno, la piccola lapide in memoria di Vittorio Benzi posta fra le tante del monumento italiano. In occasione del secondo viaggio moncalierese (marzo 2003), quando questo libro era già nella fase finale di elaborazione, si poteva notare come la testimonianza a voce fosse vicinissima, quasi identica, alla stesura scritta: certo per quella contiguità tra il ricordo ormai fermamente rielaborato e fissato in modo definitivo e chiaro.
 
Quali sono i contenuti di questa memoria, lo dichiara ovviamente il libro, e non c’è bisogno di riprenderli qui se non nelle linee essenziali, e per sottolineare alcuni punti. Dopo aver tratteggiato la storia della propria infanzia e prima giovinezza, inquadrandola in quella della famiglia di cui delinea rapidamente lo stato sociale e la vicenda (privata ma determinante per certi aspetti, come vedremo tra poco) dell’improvvisa morte della madre, si arriva al primo lungo racconto della campagna di Russia. Come promesso, il racconto è oggettivo e distaccato, il giudizio – ad esempio sulle ragioni di quella guerra, che fu di aggressione e a fianco dei nazisti – rimane sospeso, o meglio lasciato al lettore di oggi (uniche eccezioni, forse, il rapido accenno alla condizione degli ebrei lavoratori coatti nelle città tedesche e l’osservazione sul comportamento “arrogante e violento” dei soldati tedeschi). Ma la narrazione è ugualmente coinvolgente e drammatica, sia per quanto si può leggere tra le righe (un esempio per tutti, il rapido accenno all’equipaggiamento d’ordinanza, del tutto inadeguato perché in sostanza estivo, con cui Pia e i suoi commilitoni, abbandonati i camion, iniziano la tragica marcia che si concluderà positivamente, ma solo per pochi, a Nikolajevka) sia per il rapido crescendo con cui gli avvenimenti si susseguono, sempre più drammatici: l’apice dei quali potrebbe essere il racconto della lunga marcia di Pia nel dormiveglia e nel sonno, attaccato alle briglie del cavallo in groppa al quale ha preso posto l’apparentemente più fortunato sergente.
 
Vi è un “dopo” anche al termine di questa prima storia di sopravvivenza: ed è contrassegnato dalla impossibilità di dimenticare così come di far capire agli altri, espressa nell’episodio del ballo (situazioni analoghe si ritrovano frequentemente nei racconti di deportazione). Ma gli eventi incalzano, arrivano il 25 luglio e l’8 settembre. Questa zona del racconto, seppur rapidamente schizzata, è molto interessante anche perché offre e conferma un’immagine complessa e articolata della Resistenza, che non era fatta solo di partecipazione diretta, ma anche di appoggi e di contributi dati nell’ombra, ma a volte decisivi. Pia non è, propriamente, un partigiano arruolato, ma non ha esitazione a scegliere e a schierarsi, rischiando, e poi pagando, di persona, e pesantemente. Dapprima contribuisce alla formazione del gruppo partigiano di Davide Lajolo (“Ulisse”, confluito nelle brigate Garibaldi), poi è coinvolto (sempre nel suo Astigiano) nei rastrellamenti della prima settimana del dicembre 1944: organizza un nascondiglio che condivide con altri amici e partigiani, ma il rifugio è scoperto. L’imprevidenza di uno dei dieci, che ha dimenticato nello zaino il tesserino partigiano, provoca una violenta reazione dei nazifascisti. Pia potrebbe, se non salvarsi, almeno evitare di essere selvaggiamente picchiato rivelandone l’identità, ma un simile comportamento gli è estraneo (questo rapido riassunto non rende ragione della delicatezza e della sobrietà di tono con cui racconta gli avvenimenti): lo sbocco finale della vicenda è la deportazione al campo di transito di Bolzano e di lì al Lager di Mauthausen.
 
Di Bolzano viene data un’immagine tanto rapida (del resto i prigionieri del gruppo di Pia vi rimasero solo tre settimane, nel blocco dei “pericolosi”) quanto precisa: campo di transito sì, ma i prigionieri – come ammonisce la vista che si presenta al gruppo di prigionieri partiti da Torino, e alla quale si rimanda il lettore – sono sottoposti alle stesse procedure dei Lager (e del resto Bolzano era un Lager), a cominciare dagli appelli, dalle violenze e dalle botte. Ed è a Bolzano che Pia scopre sia la tremenda solitudine del prigioniero, sia il valore della solidarietà, che riguarda però solo piccoli gruppi di prigionieri, cementati da qualche vincolo comune (in questo caso la provenienza territoriale). È poi la volta del “trasporto”: almeno 501 persone, rinchiuse nei vagoni piombati in una fredda mattina del gennaio 1945, che arriveranno a Mauthausen dopo alcuni giorni di viaggio, contrassegnati da angoscia, freddo, fame, sete e qualche inutile tentativo di fuga[8].
 
La storia che segue è quella di una calata in due gironi infernali: il primo è il campo principale di Mauthausen[9], per pochi ma decisivi giorni – quelli della “quarantena”, ossia dell’iniziazione all’”ordine del terrore”[10], alla sua forsennata violenza, alla fame, agli appelli interminabili e al gelo; in un rapidissimo flash-forward, Pia ci proietta le conseguenze di tutto questo: “Alla liberazione, dopo quattro mesi…avevo perso quaranta chilogrammi di peso”. Il secondo girone: il sottocampo di Gusen, a pochi chilometri da Mauthausen, che, per durezza e disumanità delle condizioni di prigionia e lavoro costituì una realtà a sé stante[11].
Anche qui, è bene lasciare la parola a Natalino Pia, che con il suo racconto sequenzialmente ordinato, anche se a grandi linee, rende l’idea della disumana e implacabile progressione dello “sterminio attraverso il lavoro” che si consumò a Gusen. È importante capire che gli ultimi mesi del Lager furono, per molti aspetti, tra i peggiori (Gusen era sorto nel 1940); e che i prigionieri italiani al loro arrivo venivano ancora a trovarsi, nel 1945, in una posizione particolarmente difficile, che l’autore stesso sottolinea (”nella stube eravamo gli unici italiani, e i nostri compagni di camera erano tutti uniti nell’odio verso il nostro popolo, che era riuscito ad essere il nemico di tutti”.
 
La ricerca della sopravvivenza percorre così anche strade individuali, nell’alternanza di imprevedibili casualità (il ritrovamento della bussola, oggetto perfettamente inutile, in quelle condizioni, ma che può anche costituire una potenziale risorsa nel paradossale mercato di scambi fiorito nel Lager) e di sottomissione alle crudeli leggi di un “mondo alla rovescia” (l’ingannevole promessa di una sistemazione migliore, o la punizione somministrata da un kapo spietato). Eppure, nonostante tutto, il narratore riesce a mantenere un tono dimesso e mai enfatico, senza abbandonarlo neanche nei momenti più difficili. Così lascia al lettore la visualizzazione della fame dei deportati, quando racconta, senza commento, che mangiano la colla destinata alle mole a smeriglio. E ben poche parole riassumono lo strazio dell’assurda punizione a bastonate, che lo conduce sull’orlo della fine: “furono solo giorni di pura sofferenza”. Ma la sopravvivenza presenta anche aspetti enigmatici. Natalino Pia propone, per i momenti più risolutivi della sua storia – e qui ci riferiamo all’insieme della narrazione, Russia e Lager – anche una lettura in certo modo provvidenzialistica, che dà un senso anche alla prima parte, e più privata, del racconto, quella delle vicende strettamente familiari. Nei momenti più difficili, o negli episodi risolutivi, egli avverte la presenza e l’aiuto della madre: un leitmotiv che percorre tutto il libro, presentato anch’esso con grande discrezione (“ringraziai…la mamma, che secondo me aveva cercato un modo per aiutarmi”), e che certamente si può leggere in chiave religiosa o soprannaturale, ma che anche si può interpretare come segno profondo di un legame tenace di umanità, un saldo filo con la propria storia e con il proprio io, che può aiutare a mantenere identità e sentimenti in un mondo totalmente disumanizzato.
 
Un’ultima vicenda tutta a sé è poi quella legata al ritorno, che descrive una realtà variegata e non scontata, in cui si affiancano la gentilezza di tre contadine austriache, l’infida vicinanza di ex prigionieri italiani, ma anche la sicura solidarietà del siciliano “Giorgio”. E infine, al concludersi dell’anabasi, la felicità del ritorno si accompagna alla scoperta che la ferita di quel passato non può rimarginarsi.
O forse, lo può, sia pure relativamente, proprio con il farsi racconto agli altri della propria storia. Natalino Pia ha voluto lasciare il suo bracciale di prigioniero, con il numero di matricola 115658, a una delle scuole di Moncalieri con i cui studenti ha rivisitato – tra le molte volte in cui è tornato in quei luoghi – Mauthausen e i suoi sottocampi. Come quel gesto, anche questo libro vuole essere un segno perché non si dimentichi quello che è successo, anche se ormai sessant’anni ci separano dalle guerre nazifasciste e dai campi di annientamento: eventi accaduti, ma che – per parafrasare Primo Levi e Mario Luzi (Il libro d’Ipazia) – immessi nella “eventualità continua del mondo”, non si esauriscono con il loro essere avvenuti.

 

[1] Hanno parlato della deportazione con lo stesso trasporto dell’8 gennaio 1945, oltre ad altri autori di interviste e articoli, G. Argenta, Deportazione e schiavismo nazista, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1991; P. Iotti, sono dov’è il mio corpo, Comune di S. Ilario d’Enza, 1995; F. Malgaroli, Domani chissà: storia autobiografica 1931-1952, Cuneo, L’Arciere, 1992; M. Peroni, Memoria e testimonianza 1940-1945, Montecchio Maggiore, Quaderni d. Biblioteca Civica, 1991; C. Lajolo, Morte alla gola, Acqui Terme, EIG, 2003; oltre ai voll. di P. Caleffi (Milano, ed. Avanti!, 1954, e Mursia, 1988 sgg.) e di V. Pappalettera (Milano, Mursia, 1965, sgg.) citati.
[2] Ripropongo qui questa formula, di derivazione leviana, che ho già utilizzato in altra sede (L. Monaco, Una memoria lontana, in P. Bigo, Il triangolo di Gliwice, Alessandria, ed. dell’Orso, 1998, pp. 145-171).
[3] Come per l’uso del termine “olocausto”, verso la fine del testo di Pia.
[4] L’espressione, adottata da A. Bravo e D. Jalla per intitolare il loro repertorio sugli scritti italiani di memoria della deportazione (Una misura onesta, Milano, FrancoAngeli, 1994, p. 55) risale a una delle prime riflessioni sulla scrittura di Lager: A. Guiducci, Sulla letteratura dei campi di sterminio, in “Società”, a. XI, n. 1 (febbraio 1955).
[5] A. Bravo e D. Jalla (curr.), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, FrancoAngeli, 1986.
[6] F. Malgaroli, Domani chissà: storia autobiografica 1931-1952, Cuneo, L’Arciere, 1992.
[7] Il racconto di Natalino Pia, in L. Monaco-G. Pernechele (curr.), Percorsi di memoria. Viaggi di studio nei Lager nazisti 1998-2001, Moncalieri, Pozzo Gros Monti, 2002, pp. 73-74. Un altro viaggio, sempre a Mauthausen e Gusen, con studenti e insegnanti delle stesse scuole e patrocinato ancora dall’Assessorato alla Cultura di Moncalieri, si è svolto nella primavera 2003. Il 27 gennaio 2001 il sindaco di Moncalieri ha conferito la cittadinanza onoraria a Natalino Pia  e agli altri superstiti che avevano testimoniato in occasione di questi “viaggi della memoria” (Pio Bigo, Anna Cherchi, Benito Puiatti, Albino Moret, Natalia Tedeschi).
[8] I. Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I “trasporti” dei deportati 1943-1945, Milano, FrancoAngeli, 1994, pp. 113-114. Manca una ricerca specifica (che sarebbe possibile) sulla percentuale dei sopravvissuti al 1945 o 1946; nel suo testo, Pia accenna a circa sessanta sopravvissuti, il che farebbe dedurre una mortalità di circa l’85%. Se è vero che la mortalità media di Mauthausen è stata calcolata intorno al 52,5% (F. Francavilla,  I lager nazisti fra repressione, sterminio e sfruttamento economico, Torino, s.d., p. 45), una ricerca su un trasporto italiano del marzo 1944 ha dato un esito non troppo lontano da quello calcolato da Pia, ossia il 72% di mortalità (L. Monaco, Una memoria lontana, in P. Bigo, Il triangolo di Gliwice, Alessandria, ed. dell’Orso, 1998, p. 170).
[9] La letteratura su questo Lager catalogato nel 1941 come KL di terzo livello, ossia di massimo rigore (in pratica, di non ritorno), è troppo ampia per parlarne qui. Per le vicende principali si può vedere (in italiano) H. Maršalek, La storia del campo di concentramento di Mauthausen, Wien-Linz 1999. Per informazioni bibliografiche, storiche e di altro tipo più approfondite si può consultare, tra i tanti dedicati ai Lager, il sito Internet deportati.it , con numerosi link specifici.
[10] W. Sofsky, L’ordine del terrore, Bari, Laterza, 1995.
[11] Cfr. il testo di Maršalek e le fonti Internet citati nella nota precedente; Percorsi di memoria già cit. presenta una rapida scheda sia su Gusen (p. 25) che su Mauthausen (pp. 21-24).