Marcello Martini, Un adolescente in lager. Ciò che gli occhi tuoi hanno visto, a cura di Elisabetta Massera, prefazione di Alberto Cavaglion, Firenze, Giuntina, 2007, XX-110 pp., € 10.

Dei non molti adolescenti “politici” rinchiusi nei Lager, e in particolare di quelli della sua classe (1930: circa una decina), Marcello Martini è stato ed è (se non sbaglio) l’unico testimone superstite; tanto più dunque si deve essere davvero felici che la sua voce, già nota attraverso interviste audio e video (una è presente nel nuovo allestimento audiovisivo del Museo di Mauthausen), trovi finalmente espressione completa e strutturata nella forma scritta della memorialistica.
Adolescenti che facevano sul serio: a Martini, per esempio, è stato riconosciuto l’arruolamento in una divisione partigiana GL fin dal 15 settembre 1943, come si può constatare dal documento del Distretto Militare di Firenze, riprodotto nella sezione fotografica di questo interessante volumetto. E difatti, nonostante i suoi quattordici anni (ancora tredici, veramente, al momento dell’ingresso nel movimento partigiano) e un aspetto che proprio tanto adulto non doveva essere, stando alle fotografie presenti nelle stesse pagine, il giovane Marcello nell’estate del 1944 passa dalla libertà alle Murate, dalle Murate a Fossoli e infine da Fossoli a Mauthausen, con il grande trasporto di 475 “politici” da Fossoli del 24 giugno: possiamo immaginare la solitudine del ragazzo in mezzo a centinaia di deportati, alleviata (è uno dei molti aspetti interessanti di queste memorie) dall’ “affetto protettivo” di amici e compagni di lotta, che a volte perderà di vista per poi ritrovarli fortunosamente nel corso degli spostamenti  ai sottocampi di Wiener Neustadt e di Hinterbrühl-Mödling, o nel terribile ritorno a Mauthausen, durante la marcia della morte di cui questa è la prima testimonianza italiana.
Memorie di un ragazzo raccontate molti anni dopo ma con lo sguardo del ragazzo di allora, rimasto intatto: perché l’autore, il Marcello Martini di oggi, anche quando interviene e si sovrappone al ragazzo di allora, tiene distinte le due voci. Un doppio registro che affiora in modo evidente in molti passaggi, come quello in cui Martini ricorda la sua reazione alla vista di Vienna, durante il trasferimento da Mauthausen a Wiener Neustadt: “Ricordo che  mi alzai in piedi, e dal centro del vagone vidi sfilare una serie di tetti e di campanili: pensai che avrei potuto raccontare di essere stato a Vienna! Incolpevole ingenuità di un ragazzo che ancora non si era reso conto del futuro che l’aspettava!” (pag. 39; cap.6).
In questo doppio registro di memoria consiste uno degli aspetti interessanti, e forse il più originale, del libro. La memoria, che è anzitutto sguardo, del ragazzo Marcello, nel suo intrecciarsi con lo sguardo interiore (che si fa memoria) dell’adulto che ormai ha raccontato e viaggiato, e sa vedersi con distacco, questa memoria dunque mostra di condividere a pieno quel registro di “misura onesta” ricordato dal fondamentale libro (che è anche, ma non solo, un repertorio) di Anna Bravo e Daniele Jalla. Molte scene di selvaggia violenza sono descritte con una misura e una pacatezza che ricordano del resto, per chi ha avuto la fortuna di trovarsi a fianco di Martini in una visita a Mauthausen o a Hinterbrühl, la modalità stessa di testimonianza di Marcello.
E’ quanto osserva Cavaglion nella sua introduzione: “Martini è un testimone importante in Piemonte…L’ho ascoltato varie volte parlare ai ragazzi, e ne ho ammirato la spontaneità dello stile e la franchezza del pensiero, doti tipiche di ogni adolescenza “bloccata” da un trauma, riconoscibili in altri che furono deportati poco più che bambini”.
Non credo però che la “misura” di Marcello sia determinata dal trauma; del resto, lo sguardo è per così dire ingenuo, ma il giudizio è netto. Il deportato adolescente contempla meravigliato l’immensità dei capannoni di Wiener Neustadt, ai suoi occhi le gru a ponte appaiono prodigiosi e affascinanti “mostri antidiluviani”; ma colui che scrive sa bene, e si premura di avvertirne il lettore, che il giovanissimo Marcello di allora, come i suoi compagni, era “diventato a pieno titolo un lavoratore schiavo del nazismo”.
Direi piuttosto che la fedeltà profonda al suo sguardo di ragazzo (che rende così pertinente l’acuto sottotitolo del libro, peraltro di derivazione biblica) deriva a Martini dalla consapevolezza che proprio dalla sua adolescenza sono  derivate due possibilità di salvezza: una per così dire esterna, l’essere “adottato” dagli adulti, come figlio o come fratello minore (quando Marcello scrive queste cose non era ancora stato pubblicato il diario di Fossoli di Poldo Gasparotto, che annotava, il 12 giugno: “…tra i nuovi arrivati vi è Marcello, un ragazzo di 14 anni, prelevato da solo, senza nessun parente: lo adottiamo noi”); e l’altra, interiore, era data dal non avere un passato tanto ingombrante da rendere insopportabile il contrasto tra il “prima” e il “dopo”. “Non potevo, data la mia età, rimpiangere prestigio sociale, economico o professionale raggiunti prima della cattura”. Di qui una paradossale conclusione: “per me  forse è stato più facile ambientarmi in quell’inferno rispetto a persone già adulte”. Poco importa che questa spiegazione possa non valere per tanti casi analoghi: nella galassia concentrazionaria ognuno trova una sua soluzione per resistere, non necessariamente valida per un altro. Ma è a questa specifica condizione di adolescente che il Martini più adulto e consapevole fa riferimento per darsi una ragione della propria sopravvivenza, e ad essa rimane fedele per rivivere, e rappresentare, il Lager.
“Ambientarsi”, si badi bene, non significa adattarsi. In una bella pagina, relativa a Hinterbrühl descrive i sabotaggi tentati, e riusciti, durante il lavoro: “ben misera cosa rispetto all’imponente macchina bellica nazista; ma ci davano un profondo senso di soddisfazione, perché ci facevano sentire uomini vivi…”. E anche quando, tornato a Mauthausen, si trova ad essere nominato Stubendienst, unico italiano a ricoprire la carica, il ragazzo non accoglie l’esortazione alla violenza del capo baracca, rimanendo piuttosto vittima delle violenze degli altri.
Sopravvivere per un adolescente significa anche cambiare, crescere e maturare. Il punto più alto di questa consapevolezza viene raggiunto all’apice dell’esperienza schiavile di Hinterbrühl, poco prima dell’evacuazione del campo. “Avevo ormai compiuto quindici anni, ed avevo superato otto mesi di prigionia, anche per l’aiuto morale e materiale dei miei amici. Ero diventato un uomo che doveva prendere le sue decisioni e doveva sforzarsi di essere autonomo. Questo non significava non avere bisogno degli amici o rifiutare il loro aiuto: mi sentivo ormai non dipendente da loro, ma uguale a loro. Ormai potevo dire di conoscere l’animo umano nei suoi gesti più nobili e nelle sue più orribili nefandezze”.
È con questa consapevolezza, al culmine di una sorta di percorso di formazione, che Marcello affronta la terribile esperienza della marcia della morte: smantellato il Lager – e uccisi gli inabili – i deportati raggiungeranno nuovamente, dopo otto giorni e una marcia di oltre 200 chilometri, il Lager principale di Mauthausen. Si chiude un cerchio, ma ha inizio una fase in qualche modo più difficile, quella di una seconda quarantena, per molti aspetti più difficile del periodo di lavoro schiavile, vissuta all’ombra del fumo del crematorio e della camera a gas, destinazione dei prigionieri selezionati dagli pseudo-medici SS. Di questo periodo, vissuto in stato di progressivo torpore, erimangono nel racconto frammenti e squarci di memoria staccati, ma non per questo meno suggestivi: memorabile quello dell’Internazionale cantata a bocca chiusa nella baracca 24, il 1° maggio, senza reazioni da parte dei sorveglianti, consapevoli dell’imminente liberazione.
Liberazione che, sul piano psicologico, non è meno facile di certi momenti della prigionia: ed è questo, insieme alle pagine del ritorno in Italia, un aspetto tra i meno prevedibili – per chi sia abituato a questo genere di memorie – del racconto di Martini, tanto più nel capitolo finale, in cui lo sguardo si trasferisce dal protagonista alla sorella, che ricorda in modo essenziale ma incisivo non solo il ritorno, ma anche il processo di riappropriazione della memoria da parte di Marcello.
Questo spostamento di prospettiva non è però l’unico elemento di originalità del libro. Se è vero che ogni libro di memorie di Lager è in buona misura unico (tanto più se si condivide il paradigma della “galassia concentrazionaria” citato in precedenza), il racconto di Martini riempie alcuni vuoti anche sul piano delle informazioni di tipo storico. Intanto, è l’unica memoria, come si è detto, di un “politico” adolescente; una memoria che non era stata compresa nel progetto dell’Archivio della Deportazione Piemontese, dato che all’epoca Martini non si trovava in Piemonte; ma soprattutto essa rappresenta una testimonianza unica sul passaggio degli italiani in un Lager assai poco noto come quello di Hinterbrühl-Mödling. A questo sottocampo di Mauthausen e alle sue finalità produttive il libro dedica una decina di pagine. Ben poco resta oggi del Lager, che possedeva una fisionomia molto particolare, sottolineata nelle pagine di Martini: la zona di residenza dei prigionieri – naturalmente circondata da filo spinato elettrificato, ma di dimensioni ridotte – si trovava in superficie: poco oltre si trovava un pozzo di discesa alla zona produttiva, ubicata in una antica miniera di sale (quindi al riparo dai bombardamenti alleati, socondo gli sviluppi dei “Progetti Kammler”, che a partire dal 1943 collocano in gallerie sotterranee la produzione missilistica e aereonautica, e non solo: nascono così Lager come Dora, Ebensee e appunto  Hinterbrühl). Della difficile lotta per la sopravvivenza e della resistenza dei deportati (guidata dagli spagnoli) il libro di Martini traccia un quadro di grande interesse; così come risulta preziosa  – è l’unica testimonianza italiana – la narrazione della marcia della morte, in cui (seguendo altre biografie) risultano scomparsi diversi italiani. E leggendone il resoconto, il lettore vedrà che l’espressione è quanto mai adeguata  all’evento.
Non sono meno preziose, anche se si aggiungono a un quadro di conoscenze più definito, le vicende del sottocampo di Wiener Neustadt, in cui scene di terribile violenza (a ricordare che i luoghi di lavoro assolvevano anche alla funzione di uno sterminio capillare, ma costante) si affiancano a densi episodi di solidarietà e umanità.
La sezione fotografica e iconografica (con due preziose piantine di Wiener Neustadt e Hinterbrühl) arricchisce ulteriormente il quadro informativo, a sottolineare la cura di Elisabetta Massera, che lascia in questo libro l’impronta di un intreccio di amicizia, ricerca storica ed esperienze dirette nate da continui viaggi della memoria a Mauthausen, nei suoi sottocampi  e in molti altri Lager.
(lucio monaco)