Dall’internamento alla libertà. Il campo di concentramento di Colfiorito
a cura di Olga Lucchi
Editoriale Umbra, Perugia 2004., € 8,00.

È soprattutto grazie all’impegno e al lavoro di ricerca promosso dagli Istituti della Resistenza, sparsi praticamente su tutto il territorio del paese, che sono stati sottratti all’oblio molti luoghi legati alla dittatura fascista e alla sua politica di negazione della libertà. Contro una vulgata oggi molto diffusa ricerche come queste finiscono per smantellare ancora una volta il mito di un regime fascista “buono”, soprattutto se confrontato con quello nazista. Si tratta in realtà di una semplificazione, di un comodo tentativo di pacificare la nostra coscienza: grazie ad un formidabile processo di rimozione, luoghi come ad esempio il campo di Colfiorito, così come le atrocità commesse in Jugoslavia dall’esercito italiano sono stati sottratti per lungo tempo all’analisi storiografica.
In realtà già il lavoro esemplare di Carlo Spartaco Capogreco recentemente riedito per Einaudi ha dimostrato, contro ogni possibile infingimento, che anche in Italia furono predisposti dal fascismo campi di concentramento allo scopo di fiaccare l’opposizione politica al regime, isolando in zone remote del Sud o in campi appositamente pensati a questo scopo, gli esponenti politici più pericolosi. Le casermette di Colfiorito furono ritenute un luogo idoneo ad ospitare un campo di internamento e nel maggio del 1939 vi arrivarono i primi prigionieri: si trattava di albanesi.
Con l’entrata in guerra arrivano altre categorie di internati, ma nel gennaio 1941 le autorità devono chiudere il campo, che non è sufficientemente attrezzato per sopportare il rigore della stagione invernale. Il campo viene poi ristrutturato e rimane attivo fino all’armistizio. Nell’ultimo periodo esso ospitò ben 1500 deportati montenegrini: non si trattava di prigionieri di guerra, ma di persone in qualche modo legate ai movimenti resistenziali o parenti di partigiani, non appena venne diffusa la notizia dell’armistizio essi fuggirono e si unirono ai partigiani.
Dallo studio interessante e ben documentato di Patrizia Fedeli si ricostruisce non solo la vita quotidiana all’interno del campo, ma si delinea anche il prototipo del prigioniero: molti degli internati erano noti come oppositori politici e spesso erano passati dal confino all’internamento. Per lo più si trattava di persone non giovanissime, che avevano conosciuto l’Italia liberale e si erano subito opposte al regime: comunisti, socialisti, anarchici, ma anche democratici cristiani e liberali. Olga Lucchi invece sulla scorta di una fotografia scattata all’interno del campo di Colfiorito ricostruisce la biografia di alcuni internati. La foto infatti conserva sul retro l’indicazione del luogo della data e i nomi delle 9 persone che vi sono ritratte. L’autore della notazione è Carlo Venegoni. La fotografia è oggi possesso del figlio Dario, che in questo stesso volume ci offre una toccante ricostruzione della vicenda umana e politica del padre. Ecco i nomi degli internati: Carlo Venegoni, Lelio Basso, Dario Fieramonte, Ugo Fedeli, Tarcisio Robbiati, Eugenio Musolino, Agostino Fumagalli, Luigi Meregalli, Vito Bellaveduta. Olga Lucchi ricostruisce con pazienza e dovizia di particolari le vicende di tutti, i motivi che li hanno portati ad essere internati a Colfiorito fino alle vicende post belliche.
I saggi di Dario Venegoni e di Dino Renato Nardelli completano il volume. Dario Venegoni con accenti commossi rievoca una storia familiare tragica ed esemplare: quella di una famiglia operaia che per la sua opposizione al fascismo e alla dittatura ha pagato un prezzo altissimo: impegnati nella lotta antifascista furono infatti oltre a Carlo, i fratelli Mauro, Pierino e Guido. Tutti conobbero il carcere e l’internamento. Dopo l’armistizio si unirono immediatamente alle nascenti formazioni partigiane: Carlo arrestato finì rinchiuso nel campo di Bolzano da dove riuscì ad evadere, mentre Mauro fermato nell’ottobre del 1944 fu torturato ed ucciso.
Infine Dino Renato Nardelli si interroga su un tema oggi centrale, quello dei luoghi di memoria. Su di essi, sul loro valore, sulla loro manutenzione è oggi quanto mai aperto un ampio dibattito, in cui rientra anche la questione, non meno rilevante, della didattica dei luoghi della memoria. Infatti oggi più che mai si moltiplicano le visite di intere scolaresche ai campi o ad altri luoghi significativi, ma assai spesso ciò avviene senza una adeguata preparazione. Avvicinarsi correttamente ai luoghi di memoria, avverte Nardelli, è una operazione complessa: oltre alla conoscenza storica, indispensabile, per “far parlare i luoghi”occorre una riflessione attenta che aiuti a comprendere che il luogo non perde la sua significatività anche se è altro rispetto a quello che avevamo immaginato.

Alessandra Chiappano