Joe J. Heydecker
Il Ghetto di Varsavia
Cento foto scattate da un soldato tedesco nel 1941

Prefazione di Heinrich Böll
Traduzione di Rosario Muratore
Postfazione di Monica Di Barbora e Adolfo Mignemi
Firenze, La Giuntina, pp. 174, ISBN 88-8057-100-1
 

Sono gli altoparlanti sistemati nelle piazze di Varsavia ad annunciare, il 12 ottobre 1940 in coincidenza con Yom Kippur, che nella città è stato creato un ghetto. Nei giorni successivi, sui muri della capitale polacca appaiono i manifesti che ricordano come i movimenti da e verso la nuova area saranno permessi fino alla fine del mese, quando tutti gli ebrei della città dovranno esservi concentrati mentre gli ariani lo avranno dovuto ormai abbandonare. Il 16 novembre le porte del ghetto vengono definitivamente chiuse: tredici chilometri di perimetro, un muro alto due metri e mezzo costruito a partire dall’estate del 1940 e che verrà completato un anno dopo, 28 posti di blocco quante sono le uscite (poi ridotte a 13 ed infine, negli ultimi mesi, a 4). I 113 mila polacchi che abitavano nell’area interessata sono stati sostituiti da 138 mila ebrei. La popolazione del ghetto è di 380.740 persone ma altre 100 mila vi vengono concentrate dopo le deportazioni dalle città ad occidente della Vistola nei primi mesi del 1941. La situazione degli alloggi peggiora tanto che si contano mediamente 7,2 persone per ogni vano abitativo. Nel settembre 1941 è introdotta la pena di morte per chiunque tenti di abbandonare il ghetto.

 

Sono sufficienti pochi mesi per creare una situazione alimentare e sanitaria drammatica. “Guardo le facce dei passanti – scrive nel suo diario Mary Berg, alla data del 5 febbraio 1941 – livide di freddo, e cerco di imprimermi nella mente le immagini delle donne senza tetto, avvolte in stracci, e quelle dei bambini con le guance screpolate dal gelo. Questi disgraziati si ammucchiano insieme sperando di riscaldarsi un poco”. In quegli stessi giorni, approfittando di uno dei tanti varchi che si aprono nel muro – gli stessi che i bambini utilizzano per fare contrabbando, quando non passano per le fogne – un militare tedesco entra nel ghetto per cercare una conoscente di prima della guerra. Il trentacinquenne Joe Julius Heydecker, soldato della Wehrmacht, inviato a Varsavia con la compagnia Propaganda 689 come assistente di laboratorio fotografico, viene così a contatto con la realtà dello sterminio degli ebrei. Vede intorno a sé i volti emaciati dei bambini, le teste chine dei passanti che devono togliersi il cappello quando passa un tedesco, i mendicanti di tutte le età lungo le strade, le stanze con decine di persone che le abitano, stese sul freddo pavimento. Heydecker, che non è un fanatico nazista, anzi per cultura e formazione sente di essere un “nemico” del regime di Hitler, torna un mese dopo per documentare, con la macchina fotografica, la realtà del ghetto, convinto “che di tutte quelle infelici persone si fosse decisa, anzi premeditata, la morte”. Il centinaio di immagini che Heydecker realizza, vengono nascoste e conservate dalla moglie la quale, arruolatasi nel servizio civile, raggiunge il marito a Varsavia. Nel dopoguerra, Heydecker si mette subito in contatto con gli Alleati, parla il 4 novembre 1945 alla radio di Varsavia – portando la prima testimonianza oculare di un tedesco sugli orrori del ghetto –, diventa noto per un libro sul processo di Norimberga ma quelle fotografie rimangono chiuse in un cassetto. Solo quarant’anni dopo, ormai trasferitosi in Brasile, decide di pubblicarle, senza tuttavia trovare alcun editore tedesco disponibile. Una prima versione del volume di fotografie vede la luce nel paese sudamericano, poi nel 1983 esce anche l’edizione tedesca.

Di questo straordinario reportage sul ghetto di Varsavia è finalmente disponibile una versione italiana (Il Ghetto di Varsavia. Cento foto scattate da un soldato tedesco nel 1941, La Giuntina, Firenze, 2000, 20 mila lire), corredata da un bel saggio di Monica Di Barbora e Adolfo Mignemi sulle fonti fotografiche per la storia dello sterminio degli ebrei.
Come scrivono, appunto, Di Barbora e Mignemi, “il processo scrittorio, durato quasi mezzo secolo, di Heydecker ha sortito si sicuro, il sorprendente risultato di un grande equilibrio tra immagini e parole”. Il fotografo, infatti, racconta la sua storia di soldato che viene a diretta conoscenza dei crimini nazisti e tedeschi – perché di questa doppia e inscindibile dimensione appare del tutto consapevole – e, da un lato, non è in grado di ribellarsi, dall’altro una spinta etica lo porta a fermare almeno nell’immagine l’orrore di cui è testimone. Le sue fotografie sono forse meno esemplari della violenza esistente nel ghetto rispetto, per esempio, a quelle scattate a Varsavia da un altro soldato tedesco, Heinz Jöst, nel settembre 1941, e caratterizzate dagli aspetti più disumani e crudeli, specie attraverso le immagini dei corpi scheletriti dei bambini riversi e morenti sulle strade. Tuttavia, Heydecker sembra voler testimoniare – specie attraverso l’insistenza sui volti – la sofferenza più profonda, quella dell’umiliazione, dell’offesa all’umanità e alla dignità. Vi è parallelamente una chiara attenzione alla vita quotidiana, al gesto consueto, ad una sorta di normalità di cui lo stesso fotografo non riesce a dare conto dopo tanti anni, sapendo come poi in breve tempo le condizioni del ghetto e dei suoi abitanti sarebbero decisamente peggiorate. Così, in un’immagine dove un gruppo di persone sembra camminare compatto verso la macchina fotografica, emergono al di sopra delle teste alcuni palloncini: “In tutti gli anni passati – scrive Heydecker –, finché questa foto non fu ingrandita, se mi avessero domandato se nel ghetto mi ero imbattuto in un venditore di palloncini per bambini, avrei giudicato del tutto stravagante la domanda ed escluso la possibilità; tuttavia la fotografia lo prova: in principio c’erano ancora i palloncini nel ghetto di Varsavia. Bisogna essere prudenti coi ricordi”.

La scomparsa del venditore di palloncini ricorda il verso di una poesia di un bambino di Terezin che recitava: “le farfalle non vivono nel ghetto”. Ricorda soprattutto l’importanza di una testimonianza fotografica e scrittoria che, innanzitutto, ci obbliga a riflettere sulle responsabilità di chi, se non fu carnefice o vittima, fu senza dubbio spettatore. “Tutto era noto”, scrive Heydecker: le deportazioni, le gassazioni, le violenze, lo sterminio. E lui stesso spettatore, si interroga, si mette tra i colpevoli ma in qualche modo si riscatta facendo risuonare, con le immagini e le parole, un’altra “voce dei sommersi”.

 

 Bruno Maida