“Diario di Gusen” di Aldo Carpi
Einaudi, Torino 1993, pagg. 300, ill.
Introduzione di Corrado Stajano

L’inferno dall’interno, raccontato da Aldo Carpi, pittore milanese di vaglia, arrestato dai fascisti la mattina del 23 gennaio del 1944 a Mondonico, un piccolo paese della BRianza, dove era sfollato, con la moglie Maria e i sei figli: Fiorenzo, Pinin, Giovanna, Cioni, Paolo e Piero.
Insegnante all’Accademia di Brera al momento dell’arresto, avvenuto su delazione di un collega, aveva 57 anni. Avvisato dell’arrivo dei fascisti avrebbe potuto facilmente salvarsi, ma anzichè fuggire prese la strada di casa, nella speranza, consegnandosi alla cattura, di salvare i figli, che riteneva fossero nell’abitazione. Nessuno di loro, tutti già attivi nella Resistenza, era in casa. Avvisati da contadini, poterono mettersi in salvo. Carpi invece fu portato a san Vittore e successivamente deportato a Mauthausen e, infine, a Gusen, che ne eera una specie di sottosezione, dove scrisse su foglietti con scrittura minuscola, uno sconvolgente diario.
In casa, quando arrivarono i fascisti, c’erano la figlia Giovanna, il figlio Piero, che allora aveva tredici anni e due partigiani di Lodi, uno dei quali (Egidio Lovati) venne arrestato mentre l’altro (Gino Molina) fu rilasciato, ma quattro mesi dopo, braccto dalle brigate nere, venne ucciso con una raffica di mitra in via Solferino. Dei sei figli Paolo venne catturato nel luglio del ’44 dalle SS. Portato prima a Flossenburg e successivamente nel campo di sterminio di Gross-Rosen, fu ucciso dai nazisti con una iniezione a diciasette anni.
Aldo Carpi, messo prima a lavorare nelle cave, a caricare blocchi di pietre su un treno, sarebbe sicuramente morto se non fosse stato per il suo talento di pittore, scoperto da un aguzzino del campo che gli chiese un ritratto da mandare ai famigliari. Ne seguirono tantissimi altri ai figli degli ufficiali, alle mogli, alle fidanzate, prendendo sempre per modello una fotografia. Piacevano questi ritratti e anche altri quadretti con soggetti vari, principalmente paesaggi. Grazie a questa attività artistica, Carpi potè lavorare in un ambiente chiuso, relativamente caldo guadagnandosi anche qualche zuppa supplimentare e altro cibo, che provvedeva a distribuire anche ad altri prigionieri.
Atto di grande coraggio il suo diario, che, per chi voglia leggerlo, è stato ristampato recentemente dalla Einaudi nella collana dei tascabili. Si deve ricordare, infatti, che se fosse stato scoperto mentre scriveva o anche se gli fossero stati trovati addosso i fogliettini, non avrebbe avuto scampo. Nei campi di sterminio, d’altronde, si veniva ammazzati per molto meno.
Come scrive Primo Levi, quasi sempre era il caso a decidere. Che, per la vita, decideva raramente. Per chi entrava in quei lager la possibilità di sopravvivere era ridotta quasi a zero. Per uno come Carpi, inoltre, c’erano anche i pericoli dovuti alla rivalità di altri. Scrive Corrado Stajano, nella bellissima prefazione al “Diario di Gusen”, che “quando arrivò al suo primo lager, fu accolto dall’ostilità di altri pittori deportati che temevano la sua concorrenza, lo maltrattarono, gli rubarono i colori che era riuscito faticosamente a portare con sè.
A Gusen fu più fortunato, incontrò un medico polacco, Felix Kaminski, che aveva una grande passione per l’arte e un altro medico, di Poznan anche lui, Toni Goscinski che lo protessero, gli permisero di rimanere in uno sgabuzzino dell’ospedale dove Carpi, che era riuscito a preparare dei colori, lavorò sistematicamente come un dannato. In un anno di lager dipinse, a tempera o a olio, 74 quadri: il capitano medico, fiori, donne e rose, il figlio del capitano, la donna velata, la donna del sergente, l’ex ergastolano, la bionda del lago di Como, il figlio del dottor Kaminski, il padre del dottor Kaminski, il monte Rosa, madre e bimbo in montagna, ragazza morta durante un bombardamento, nudino veneziano”. Ma solo dopo, al ritorno, potrà dipingere le scene strazianti del campo della morte, indimenticabili nel loro orrore.
Racconta Il figlio Pinin, che ha ammirabilmente curato le memorie del padre, intervistandolo per giorni e giorni per colmare gli stacchi fra un foglietto e l’altro e per chiedergli chiarimenti su personaggi e vicende appena accennate nel diario, che, tornato a casa, parlò senza mai fermarsi per due giorni, poi basta. E non volle neppure rileggere i suoi foglietti di memorie, nemmeno uno, perché “non si è mai sentito in grado di farlo”.
Ancora negli ultimi anni faceva fatica a parlare del lager. Non ce la faceva a dimenticare i compagni che ogni giorno aveva visto entrare nel “Bahnof” del blocco 3, la camera della morte. E come avrebbe potuto dimenticare l’operaio Alfredo Borghi che, nell’anticamera della morte, lasciato senza cibo e senza acqua, gli grida: “Carpi, damm de bev”. O quel ragazzino russo, “bolscevico di dodici anni”, il piccolo Zucarov, che carezza come fosse suo figlio tenendoselo stretto come estremo saluto, con la angosciosa consapevolezza che non avrebbe potuto strapparlo alla morte.
Finisce finalmente l’incubo, arrivano i liberatori americani e Carpi, sia pure con un ritardo di tre mesi perché anche agli americani piace farsi ritrarre da lui, torna nella sua casa, in mezzo ai suoi cari, trovando però il doloroso vuoto del figlio Paolo, giovanissimo partigiano, assassinato dai nazisti.
A furor di critici, pittori, modelle e bidelli, Aldo Carpi viene nominato direttore dell’Accademia di Brera. Nel libro è riprodotta la foto di un cartello con scritto. “Vogliamo Carpi a dirigere Brera”, con moltissime firme di artisti, allora giovani, che diventeranno famosi: Cassinari, Morlotti, Dova, Ajmone, Crippa, Del Bon, Funi, Soldati, Cavaliere. Fra i critici, primeggia la firma del nostro Mario De Micheli.
Vivrà ancora per ventotto anni. Carpi muore a Milano il 27 marzo 1973. Restano le sue opere di grande pittore e resta la sua testimonianza, fra le più alte di quei terribili anni.

Ibio Paolucci

(Pubblicato sul Triangolo Rosso n. 1/98 – Gennaio 1998)