UN DOCUMENTO MILITARE AMERICANO SUL LAGER DI DACHAU

Il documento del quale qui si riportano ampi brani, fu redatto a Dachau, nel maggio 1945, da una apposita Commissione militare dell’Armata americana che aveva occupato quella zona della Baviera.
La Commissione compilatrice fu presieduta dal Col. William W. Quinn – G S C – del Settore G2 della 7ª Armata USA e la composizione del fascicolo fu curata dal Magg. Alfred L. Howes, che si avvalse anche della collaborazione dei suoi subalterni John S. Denney e Chas W. Denney jr. e, per le fotografie che corredano il testo originale, dell’opera della 163ª Signal Photo Company.

COMITATO INTERNAZIONALE DEI PRIGIONIERI (I.P.C.)

Quando gli americani entrarono in Dachau, nel pomeriggio del 29 aprile, vi trovarono un “Comitato Internazionale dei Prigionieri” (I.P.C.), che funzionava nel campo. La maggior parte delle guardie SS era fuggita insieme alla maggior parte di quei prigionieri che avevano collaborato con loro e si erano resi personalmente colpevoli di maltrattamenti e di assassini di detenuti.
Le origini dell’I.P.C. risalgono al settembre dello scorso anno, quando i successi militari alleati nell’Ovest, avevano aperto ai prigionieri prospettive di prossima liberazione. Un piccolo gruppo di detenuti addetti all’infermeria del campo, costituì il primo nucleo dell’I.P.C.: un albanese (Kuci), un polacco (Malczewski), un belga (Haulot) e un anglo-canadese (O’Leary).
Essi presero contatto con i rappresentanti di altre nazionalità, russi, francesi, ecc.
L’I.P.C. è ora la più alta autorità dei detenuti nel campo. Attualmente è presieduto da un generale sovietico (Michailov): il belga Haulot ne è il vicepresidente. Il Comitato tiene riunioni giornaliere con le autorità militari ed è incaricato dell’esecuzione degli ordini emessi dal comando americano. Sono stati inoltre fondati sottocomitati per tutte le necessità basilari, quali la pulizia, la sussistenza, la sanità, il lavoro, i provvedimenti disciplinari, ecc. In questo modo il Comitato, con le sue varie diramazioni, continua a cooperare al mantenimento dell’ordine nel campo e alla preparazione delle condizioni necessarie per il rilascio ed il rimpatrio dei prigionieri di Dachau.

 (Dal rapporto del distaccamento CIC – Settima Armata)

LA LIBERAZIONE
Gli Americani arrivarono domenica 29 aprile. L’arrivo degli Americani fu preceduto da molti giorni frenetici. Mercoledì fu l’ultimo giorno di lavoro, dopo il quale nessuno più uscì dal campo. Le squadre esterne di lavoro, che vivevano sparse fuori dal campo, vi tornarono improvvisamente. Le radio furono portate via e non vi fu più alcuna possibilità di comunicazione con l’esterno.
Giovedì furono dati ordini per lo sgombero di tutto il Lager. Ci si diede ad organizzare trasporti su larga scala, ma l’organizzazione era scarsa e non coordinata.
Dopo incominciò un periodo di intensa attesa. Fra le baracche correvano voci di reggimenti e di carri armati che si trovavano proprio dietro la collina, di progetti di sterminio in massa dei prigionieri da parte delle SS rimaste, di arrivo di paracadutisti, di armistizio. I prigionieri organizzarono un corpo di polizia segreto, incaricato di tenere l’ordine, dopo la liberazione che sapevano imminente. Costruirono barricate, per impedire ai loro compagni di trovarsi fra i piedi delle guardie innervosite.
Vi fu una stasi assoluta durante tre giorni, mentre i prigionieri aspettavano e le guardie passeggiavano innanzi e indietro, nervosamente, furtivamente, sulle loro torri.
Domenica, subito dopo il pasto di mezzogiorno, l’aria era insolitamente calma, il grande spiazzo lì fuori era deserto.
Improvvisamente qualcuno cominciò a correre verso il cancello, dall’altra parte dello spiazzo. Altri seguirono. La parola fu gridata attraverso la massa dei grigi, stanchi prigionieri. Gli Americani! La parola fu ripetuta, gridata, passata da una bocca all’altra, in polacco, in italiano, in russo, in olandese, in francese.
Il primo internato che corse verso il cancello fu abbattuto dalla guardia, con una fucilata. Tuttavia essi continuarono a correre e a gridare con bocche avide e occhi increduli. Gli Americani! E al cancello, di fronte all’isterica massa di uomini, non vi erano i reggimenti e i carri armati che essi si aspettavano, ma un bruno calmo soldato americano, un polacco-americano che, pistola alla mano, si guardava intorno con naturalezza; guardava, sulle torri, le guardie SS irrigidite, guardava gli altri due o tre giovinotti americani, a circa cento jard di distanza, guardava i volti esaltati, sudati, di quei mille che spuntavano da tutte le parti davanti a lui.
Alcuni colpi furono sparati da dietro il muro, le guardie della prima torre scesero, con le mani in alto. Un lenzuolo sventolò da un’altra torre ed essi scesero; ma uno di loro aveva una pistola nella mano che nascondeva dietro la schiena e il soldato bruno gli sparò. Dall’altro lato del campo le guardie erano tenute sotto tiro dall’esterno.
Poi arrivò una jeep. Dove erano i reggimenti e i carri armati? Il primo americano che varcò il cancello fu sollevato in aria, e altri due, un contadino diciannovenne del West e uno studente universitario diciannovenne, furono strappati dalla jeep e portati in giro sulle spalle degli internati. Nella jeep vi era anche una bionda giornalista che con un ufficiale salì sulla torre che era sopra il cancello.
Improvvisamente i detenuti tirarono fuori bandiere e insegne che erano state sepolte sotto le baracche o nascoste fra le travature. Queste bandiere e queste insegne erano state improvvisate con lenzuola e con ritagli di panno colorato. Era un martedì grasso. Mediante l’altoparlante la bionda giornalista disse: “Noi siamo tanto felici di vedervi, quanto lo siete voi di vedere noi”. Ed ecco un cappellano militare che in un tedesco stentato li invita ad unirsi a lui nel dire il Padre nostro. Per alcuni minuti, all’unisono, le teste chine in segno di riverenza e le mani giunte, tutti pregarono. Le parole echeggiarono lungo il campo e nei cuori di quelle migliaia di persone che ancora non credevano all’apparizione del bruno polacco americano, del diciannovenne contadino del West e dello studente.
Già nelle prime ore dopo la liberazione circolarono per il campo autocarri e macchine con “troupe” cinematografiche per documentare l’incredibile scena.

Note:
La giornalista era miss Walsh, il comandante in capo il gen. Linden, nella cui formazione vi erano molti polacco-americani, italo-americani e negri.
Solo i Kapos e i degenti in alcuni reparti dell’infermeria avevano le lenzuola. Tutti gli altri non ne ebbero mai: dormivano avvolti in una coperta di cascame, che a volte doveva servire per due o tre. Le bandiere di cui si parla erano infatti state preparate nel Revier, con pezzi di lenzuola.
Quello della data è un errore, piuttosto strano. Era domenica. Martedì fu il 1° maggio, giorno in cui si realizzò la riunione di tutti i deportati ancora in piedi, nel grande piazzale dell’appello, per una manifestazione internazionale, nella quale presero la parola, per dire un messaggio agli uomini, i presidenti dei vari comitati nazionali.

Le Note aggiunte al testo non esauriscono l’argomento, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi giorni del Lager, che nel documento sono esposti caoticamente e superficialmente. A proposito di essi si può con tutta coscienza affermare che, se non vi fosse stata l’azione dei comitati di resistenza (dell’I.P.C. per una parte e dei gruppi di combattimento per l’altra), la storia di quei giorni sarebbe stata assai diversa, e gli Americani, arrivando, non avrebbero forse trovato che un recinto vuoto o in fiamme, e i cadaveri di 32 mila uomini mitragliati lungo le strade o nelle foreste.
Fu merito prevalente dell’I.P.C. – che era un raggruppamento interpartitico e nel quale vi erano uomini decisi e coraggiosi e altri che lo erano molto meno, ma comunque tutti di rilievo e di prestigio – l’essere riuscito a disorganizzare i servizi e intralciare le partenze; ma fu merito prevalente dei gruppi di combattimento, diretti da ex partigiani ed ex combattenti di Spagna, l’aver inviato fuori del Lager, il 27 aprile, due staffette (gli antinazisti tedeschi Karl Riemer e Niholaus Hausner), perché corressero incontro agli Americani che erano fermi a Pfaffenhofen a 50 km. da Dachau, e li convincessero come li convinsero, a spingere una colonna veloce verso il Lager, se volevano cercare di salvare i 32 mila ancora in vita.
E fu ancora dai gruppi di combattimento che uscì il pugno di uomini – tedeschi e austriaci, ex combattenti di Spagna nella maggior parte – che il giorno successivo, 28 aprile, approfittando del disordine generale (di cui si giovarono anche alcune SS per tagliare in tempo la corda), lasciarono il campo e, con le armi abbandonate loro dalle SS in fuga, corsero verso la cittadina di Dachau e affrontarono le sentinelle del ponte Nord sull’Amper, dalla parte di Augsburg. Gli attaccanti avevano un solo scopo: quello di accrescere il disordine, al fine di impedire al comando SS di attuare l’ordine di Himmler.
Trovandosi improvvisamente di fronte degli uomini armati, stranamente vestiti, le SS di Dachau-città pensarono a paracadutisti e fecero suonare l’allarme, un preziosissimo allarme che servì anzitutto a permettere a una colonna di uomini (erano tutti Italiani), radunati sul piazzale del Lager per la partenza e l’annientamento, di squagliarsela, mentre le SS, sorprese dall’”allarme-paracadutisti”, correvano verso il Comando che, organizzata una forte formazione, riuscì presto ad avere ragione dei rivoltosi, tre dei quali, feriti, furono impiccati sulla piazza del Municipio. I nomi di questi tre eroi sono: Anton Hachl, austriaco, Erich Hubman, austriaco, Friedrich Durr, tedesco. Grazie al loro cosciente sacrificio un intero pomeriggio era stato guadagnato, l’ordine delle partenze – predisposto, per gruppi nazionali (gli antinazisti tedeschi e austriaci, poi i Russi, poi noi Italiani; e dopo, i Francesi, i Belgi, ecc.; ultimi i Polacchi) – era stato sconvolto, il comando SS disorientato e intimidito al punto da non essere più in grado di prendere alcuna decisione e ridotto, nel contrasto dei poveri e delle paure, alla completa paralisi e in balia degli eventi.
Fu l’insieme delle azioni di resistenza che impedì il massacro finale. Queste azioni furono merito prevalente dell’uno o dell’altro comitato; ma l’uno e l’altro potrebbero, a giusto titolo, rivendicarne anche l’intera responsabilità poiché in seno ad essi vi erano uomini che appartenevano all’una e all’altra organizzazione contemporaneamente. Ciò non toglie che esse fossero sostanzialmente diverse nell’ispirazione di fondo e nei metodi. E se alla fine l’una (l’I.P.C.) venne in piena luce e l’altra sembrò sparire e dissolversi, ciò fu a causa della natura della formazione militare che occupò la Baviera.
Una storia particolareggiata di quelli che furono gli ultimi giorni di Dachau richiederebbe uno studio a parte, che un giorno o l’altro bisognerà pur compiere. Ci basti, per questa volta, il piccolo contributo che abbiamo potuto portare alla conoscenza di quella che fu la resistenza organizzata all’interno di un Lager nazista.

 Giovanni Melodia